I diritti dell’arte finiscono dove iniziano quelli della natura


Sfide tecniche e intrecci umani punteggiano la storia della Collezione Gori alla Fattoria di Celle in Toscana Ottanta opere di arte ambientale, tra installazioni e sculture create da artisti della scena internazionale
STEFANO MILIANI ·

Era il 1981. Fausto Melotti scoprì che una sua installazione non era in un prato come concordato: artista di prima categoria, dapprima si arrabbiò, poi vide l’opera riflessa sull’acqua di un laghetto, si entusiasmò e abbracciò il committente. Uno scultore definito fin troppo sbrigativamente minimalista come Robert Morris nel 1982 creò un labirinto in marmo che i tecnici ritenevano non avrebbe retto e invece ha tenuto.
Sfide tecniche e intrecci umani punteggiano la storia della Collezione Gori alla Fattoria di Celle, a Santomato sui colli a sud di Pistoia, in Toscana, in un parco sette-ottocentesco tra il bosco, radure improvvise, declivi, anfratti misteriosi, qualche casa, canneti ombrosi, olivi e olivi fuori dalla selva.
Di cosa si tratta? Di una strepitosa concentrazione di 80 opere di arte ambientale, vale a dire installazioni e sculture create da artisti della scena internazionale come Beverly Pepper, Sol LeWitt, Daniel Buren, Claudio Parmiggiani, solo per citare alcuni nomi. I quali hanno tradotto in opere il sogno di un caparbio imprenditore del tessile pratese quale è Giuliano Gori, affiancato da sua moglie Pina, purtroppo scomparsa, da quattro figli e da tanti nipoti. Si chiama Fattoria, è una villa. Lungo via Montalese tra Montale e Pistoia una grande scultura color rosso minio di Alberto Burri in uno spiazzo erboso prima del cancello d’ingresso segnala che qui c’è un sito molto singolare. Approdato a un bel traguardo: nel pomeriggio di sabato 11 giugno il parco di arte ambientale Gori festeggia i 40 anni dall’apertura al pubblico con performance, uno spettacolo teatrale, una mostra fotografica di Luca Gilli, un incontro sulla raccolta poetica Non so aspettare il vento (Edizioni gli Ori) di Giuseppe Conte, storico autore di Giunti editore, il quale riceve il Premio Celle Arte e Natura assegnato, nella sua prima edizione del 2020, ad Antonella Anedda.
L’apertura nel 1982
Sarà meglio riavvolgere il filo del tempo. Il 12 giugno 1982 Celle inaugurò le prime diciotto opere: dieci nel parco le firmavano tra gli altri Alice Aycock, Dennis Oppenheim, Anne e Patrick Poirier, Richard Serra e Mauro Staccioli; otto erano state create per gli interni di edifici vari da Nicola De Maria, Luciano Fabro, Mimmo Paladino, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e altri.
Giuliano Gori è un novantaduenne schietto che disdegna i fronzoli e la raccolta di opere all’aperto in qualche modo riflette l’amore per un linguaggio inventivo ed essenziale allo stesso tempo. Alla domanda su come ebbe l’idea racconta: «Al Museo di arte catalana di Barcellona mi colpì moltissimo una pala d’altare medioevale presentata con la ricostruzione dell’altare e dell’ambiente originario: era fantastica. Telefonai a Pina, le dissi di avere idee bellissime per l’arte e lei rispose: sono felice di sentirti così, spero che ti entusiasmerà anche la notizia che aspetto il terzo figlio. Era Paolo che nacque alla fine del 1961».
L’idea si affinava, serviva il luogo. Arrivò con l’acquisto di villa e parco nel 1970. Da quel momento la coppia iniziò a ospitare artisti affinché creassero opere sul posto. Poi un cambio di passo. «Una mattina mi sono detto di essere pazzo – ammette Gori – Ai figli, con i quali avevo e ho un dialogo bellissimo, dissi: o si chiude o si apre al pubblico, gratis. Risposero di andare avanti, “siamo tutti con te”. Così nell’82 decidemmo aprire».
Che caratterino, gli artisti
Su uno specchio d’acqua vicino alla villa si riflettono sfere, catene, impalcature leggere in acciaio inox di Melotti. Tanta serenità ha un retroscena. Lo ricostruisce Gori stesso: «Ero innamorato del suo lavoro così dissi a Fausto di creare un’opera per Celle che avremmo mandato al Forte Belvedere a Firenze per la sua grande mostra del 1981 e poi sistemato qui». Artista e committente scelsero di collocare l’installazione su un prato circondato dalla selva. «Quando vidi il laghetto invece pensai che era giusto montarla lì e così feci. Con Melotti avevo un bel rapporto ma quando glielo dissi replicò di sistemarla dove avevamo deciso o non se ne faceva nulla. Insistetti, vide la mia sistemazione, si commosse e mi abbracciò».
A Celle gli artisti alloggiano, progettano le opere, studiano a lungo, esplorano. Alcuni, come lo scultore israeliano Dani Karavan, diventavano parte della famiglia. Spesso osano. Come Robert Morris con il suo spiazzante Labirinto, un triangolo equilatero, visto dall’alto, con un percorso interno.
«L’artista lo progettò con le fasce in marmo bianche e verdi delle chiese gotiche e romaniche toscane», ricorda il “padre” di Celle. Tuttavia insorse un problema mica da poco: «Gli ingegneri sostenevano che con la spinta di quel peso nel terreno in pendenza il Labirinto non avrebbe potuto reggere né avere tutte le fasce di dimensioni uguali. Morris li sfidò e aveva ragione: il Labirinto ha un blocco analogo di marmo sotto terra e da quel 1982 ha retto». Le storie di azzardi tecnici non si contano, più artisti si sono avventurati in territori a loro ignoti.
La scultrice
Magdalena Abakanowicz, polacca, ha sistemato su un prato trentatré enigmatici gusci con nervature interne che possono evocare forme viventi di un film di fantascienza. L’opera si intitola Katarsis ed è del 1985. «Mi entusiasmò una sua sala a una Biennale – racconta Gori – Allora a chi veniva dall’Europa orientale serviva un permesso speciale perché potesse restare tre mesi: ce lo dette Andreotti a quel tempo ministro degli Esteri. Andai a prenderla all’aeroporto di Pisa e incontrai una donna che non concedeva nulla, dura. La mattina facevamo colazione insieme, poi andavo in ditta a lavorare e lei progettava».
Qui si inserisce un altro tassello: a Celle gli artisti ospiti creano in santa pace. «Dopo una settimana a colazione trovai le sue valigie. “Vado via”. Chiesi perché. “L’unico luogo che vorrei è l’orto dove tu hai detto che non posso far nulla”, rispose lei». Lo stupore rivive in quest’uomo che puntella i fatti con confronti molto umani.
«Il problema era che lì avevo un accordo con il comune per costruire un edificio rasoterra coperto di erba per la mia collezione. Va beh, le detti l’orto». Complicazioni finite? Macché. La scultrice doveva scegliere quale materiale usare. «Se è un materiale che non si rovina l’opera avrà vita, se deperisce scompare presto. Le proposi il bronzo», rammenta Gori. «“Mai”, rispose la Abakanowicz. Rimase mesi, chiese una proroga, non trovava il materiale giusto, alla Fonderia Venturi di Bologna provò con l’alluminio, alla fine scelse il bronzo e da allora ha mandato opere in bronzo in tutto il mondo».
I diritti dell’arte
«Un’opera ambientale non è ambientata in uno spazio, lo adopra, lo assorbe, lo rispetta. Come ha scritto Carlo Belli (1903-1991, ndr) che era mio amico “i diritti dell’arte terminano dove iniziano quelli della natura”», riflette l’imprenditore e mecenate. I fatti confermano: la natura qui viene rispettata.
Nella notte del 20 aprile 2005 soffiavano venti mai sperimentati a causa di un clima impazzito e sradicarono una quercia sovrastante un’enorme installazione di Dennis Oppenheim fatta di teleferiche, pannelli, rampe di lancio, torri leggere in ferro e acciaio. Da allora il tronco e i rami giacciono a terra come un monito.
Anche George Trakas ha visto gli alberi caduti su un suo tragitto d’autore e ha voluto lasciarli. In pieno accordo con il committente perché a Celle il rapporto diretto con gli artisti è la premessa di ogni creazione che non vuole essere soltanto per pochi. «Sarebbe ignobile se le 80 opere fossero state create solo per me», avverte Gori. Lo sguardo si fa deciso. Uomo dai modi franchi, va fiero anche di non aver mai usato la sua ditta come sponsor: «Mi sono sempre frugato in tasca. Una volta Sebastian Matta disse a dei giornalisti che veniva qui perché “Giuliano non mette la vita in banca”». Le parole del pittore cileno possono coronare la tappa di un viaggio nell’arte e, forse, nell’animo umano tuttora in corso.
Fonte: Domani