«Lo scontro diretto con Mosca, che probabilmente coinvolgerebbe anche la Cina, significherebbe terzo conflitto mondiale. E nessuno ne uscirebbe vincitore»
Umberto De Giovannangeli
«Anche se si prova a rimuovere questo spettro, siamo vicini all’alternativa del diavolo: guerra totale (quindi nucleare) contro la Russia o lasciare Kiev al suo destino»
La guerra, l’Europa, l’Occidente. E un mondo in cui i conflitti si moltiplicano, incomponibili come i racconti che li alimentano. È il filo conduttore dell’intervista a Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes.
“La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa”. È il titolo del suo ultimo libro, edito da Feltrinelli. I due concetti, la fine della pace e la storia in Europa che ricomincia, non sono in contraddizione uno con l’altro?
Direi proprio di no. Noi europei, noi italiani in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo considerato la pace un diritto umano, acquisito una volta per tutte. Non abbiamo mai immaginato di dover essere coinvolti in un orizzonte di guerre. Aggiungiamo anche che quando ne siamo stati, almeno in parte, coinvolti, e cioè nelle guerre balcaniche, di fatto non consideravamo mai i Balcani parte dell’Europa, quasi fossero una regione sulla luna, e questo c’ha portato a ritenere che la guerra in Ucraina, un po’ più a est dei Balcani, fosse una guerra in Europa. Lo è infatti ma è anche una guerra indirettamente mondiale perché coinvolge tutte le maggiori potenze, gli Stati Uniti, Cina e Russia. Prima il lungo decennio della Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il ventennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la contestazione russa dell’ordine americano via “denazificazione” dell’Ucraina da restituire al rango di Piccola Russia, parallela all’analoga sfida cinese al primato di Washington centrata sul “rimpatrio” di Taiwan. Finita era la pace, non la storia. A Bush padre come a quasi tutti i contemporanei sfuggiva che la fine dell’impero sovietico e la scomposizione dell’Urss in quindici repubbliche che dalla sera alla mattina vedevano i loro pseudo confini amministrativi eretti a frontiere di improbabili Stati, segnavano il tramonto del vecchio ordine, non l’alba del nuovo.
Della fine della storia, per restare al contenuto del libro, noi viviamo il rovesciamento: le storie della fine.
Le storie della fine nel senso che c’è una vulgata apocalittica. Specialmente subito dopo lo scoppio della guerra sembrava che fossimo alla fine del mondo e che comunque il conflitto in Ucraina annunciasse una guerra mondiale effettiva. Non ci siamo ancora, spero che non ci saremo mai. Quello che è importante sapere è che nessuno può decidere a tavolino che la storia è finita, almeno finché ci sono sulla terra 8 miliardi e rotti di abitanti.
Nel libro, c’è una considerazione forte: nessun ordine è stato negoziato perché nessun nuovo ordine oggi è possibile.
La Guerra fredda era un ordine di pace, nel senso che, sia pure informalmente, si era stabilito di tracciare una linea rossa in mezzo all’Europa. Da una parte i russi facevano quello che ritenevano giusto fare e dall’altra gli americani ci lasciavano abbastanza fare e nel caso ci bacchettavano. Nessun russo pensava di avere qualcosa da dire sull’Italia o sulla Francia e nessun americano ha mai pensato di fare la guerra alla Russia per il Muro di Berlino o per la rivolta di Budapest. Non abbiamo capito che la Guerra fredda non era affatto paradigma negativo. Era l’unico equilibrio possibile per evitare la guerra calda che avrebbe distrutto l’Europa, sterminato noi europei e dilagato nel pianeta. Era un ordine di pace, sicuramente ingiusto, certamente intollerabile per quella metà di Europa che era finita sotto i sovietici ma una pace. Una volta travolto questo ordine per il crollo dell’Unione Sovietica e non tanto per volontà americana, sono emersi tutti i conflitti latenti o rimossi che esistevano e che esistono tutt’oggi in Europa e che si rivelano anche nel modo in cui diversi paesi europei si schierano nella guerra d’Ucraina, cioè diversamente.
Nel libro lei evidenzia il principio europeistico di irrealtà. In cosa s’invera oggi e che cosa tende a mascherare?
Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui. Più degli americani, noi italiani e altri europei occidentali abbiamo davvero creduto nella fine della storia. Di esserne lo scopo: abbiamo immaginato l’Europa come lo spazio che per primo avrebbe superato lo Stato nazionale in vista di un utopico impero universale del diritto e della pace.
“Per l’America meglio le democrature dell’UE. Chi ci salverà dall’Occidente?”. Così questo giornale ha titolato una intervista a Mario Tronti.
Spero di non essere salvato dall’Occidente, nel senso che mi ci sento dentro e mi sento anche fortunato di esserci dentro. Faremmo anche bene noi italiani a ricordarci che non siamo un paese neutrale né siamo un paese altrove ma siamo un paese europeo, euromediterraneo, di quello che oggettivamente è un impero americano che dalla Seconda guerra mondiale ha l’ultima parola su questa parte d’Europa.
Nel declinare i conflitti che oggi marchiano il pianeta, non c’è il rischio che sotto le macerie di alcuni di essi ci finisca per stare l’Europa?
Si ci sta l’Europa, le europe, i paesi europei, i popoli europei e ci saranno sempre di più almeno nel futuro immediatamente visibile perché anche se, come speriamo, si dovesse arrivare in tempi non biblici alla sospensione della guerra in Ucraina, e quindi alla costruzione provvisoria di un ordine di pace, poi la ricostruzione dell’Ucraina, materiale e non solo, ricadrà sulle nostre spalle. In più, la divisione che sta riemergendo in Europa tra paesi dell’Est, una volta sotto il Patto di Varsavia e oggi fieramente antirussi, e paesi dell’Ovest invece usi a dialogare, a negoziare, a commerciare con la Russia, questa frattura è abbastanza evidente, con gli americani interessati a quella prima Europa, quella che loro chiamano nuova Europa con la Polonia al centro, e noi in una posizione marginale.
La pace, per tornare al titolo del libro, senza essere aggettivata non rischia di essere una parola, un concetto appeso al nulla, un richiamo retorico?
Per pace intendo anzitutto che non ci si spari addosso, in secondo luogo che regni un certo grado di sociabilità, di consenso, di armonia nei paesi che non si sparano addosso. Questo francamente mi pare una cosa non solo buona e concreta ma anche necessaria a tutto il resto e cioè allo sviluppo economico, all’educazione delle persone, al vivere insieme. Se non c’è pace tutto il resto non può darsi.
Papa Francesco ha più volte messo in guardia su una “guerra mondiale a pezzi” in atto.
Quella metafora, imprecisa come tutte le metafore, è evocativa di una realtà di fatto, cioè che sono in corso nel mondo decine di guerre, alcune delle quali possono elevarsi a guerre mondiali, in particolare quella in corso in Ucraina e quella potenziale intorno a Taiwan e nell’indopacifico.
Per venire alla più stretta attualità. La visita Xi Jinping a Mosca e l’invito che il presidente cinese ha rivolto al suo omologo russo, Vladimir Putin, di recarsi a Pechino, erano atti dovuti?
No, erano atti voluti. Nel senso che è nell’interesse di Xi Jinping esibire una coppia di fatto russo-cinese, con la Cina dominante, e la Russia junior partner, che s’intesta la guida del mondo non occidentale. In teoria è un mondo nettamente prevalente, se non altro da un punto di vista demografico, visto che gli occidentali sono poco più di 1 miliardo su oltre 8 miliardi di umani. Ma immaginare che esista un blocco di 7 miliardi di uomini e donne guidati da Xi Jinping e Putin appartiene alla propaganda e non alla realtà. Per quanto si voglia rimuovere questo fantasma, siamo vicini all’alternativa del diavolo: guerra totale – quindi nucleare – contro la Russia oppure graduale abbandono di Kiev al suo destino. Lo scontro diretto con Mosca, nel quale probabilmente sarebbe coinvolta la Cina, sarebbe terza guerra mondiale. Dalla quale difficilmente uscirebbe un vincitore.
Nel mondo sono in corso più di 40 conflitti armati, che Limes ha analizzato nei suoi volumi, e la grande maggioranza di essi sono guerre “ignorate” dalla comunità internazionale.
Intanto la “comunità internazionale” è una descrizione retorica, non realistica, nel senso che questa comunità non esiste. Esistono paesi molto diversi che non rispettano delle regole comuni e quindi non si capisce in che senso formino una comunità. Poi è chiaro che ci sono delle guerre che se per comunità internazionale intendiamo i media occidentali, c’interessano poco o nulla ma che interessano moltissimo le parti coinvolte e magari anche qualche potenza che cerca di trarne profitto. Penso in particolare ai conflitti africani.
Se lei dovesse indicare in prospettiva un’area del mondo da monitorare con particolare attenzione per quelli che potrebbero essere degli sviluppi drammatici, quale segnalerebbe?
L’area intorno all’Italia, Mediterraneo e Africa settentrionale, da cui peraltro dipenderà sempre di più il nostro approvvigionamento energetico, il che rende ancora più interessante osservare quello che lì accade.
Per restare al Mediterraneo. Nella sponda sud si sommano Stati falliti. Alla Libia si potrebbe aggiungere ora la Tunisia?
Direi proprio di sì, nel senso che o sono falliti o sono dei regimi militari, insomma nulla che assomigli ad uno Stato come l’intendiamo noi. Questo complica maledettamente i problemi perché se ci sono dei problemi che ci coinvolgono, per esempio le migrazioni, ma non ci sono dei responsabili che possano rendere effettivi gli accordi che dovessimo prendere con loro, beh questo è un grosso problema, per cui ci riduciamo a pagare questa o quella milizia con risultati modesti quando non sono tragici.
Fonte: Il Riformista