GLI EROI CHE SALVARONO L’ARTE


Alle Scuderie del Quirinale l’avventurosa storia dei capolavori nascosti alla guerra e alle razzie del nazismoMaurizio Crippa

Fu il nazionalista Bottai a intuire, nel 1939, che con la guerra e l’alleato tedesco infatuato di arte italiana il patrimonio nazionale era a rischio Una mostra che ha un primo grande merito, quello di ri-dire agli italiani quale sia il valore non soltanto estetico ma civile della storia dell’arte Si vede come un film, cento dei capolavori salvati o recuperati dopo la guerra e le foto che testimoniano un lavoro fatto di cultura e abnegazione Rotondi, Lavagnino, Bucarelli, Wittgens e gli altri: la generazione di giovani storici dell’arte che “fecero l’impresa”. Una mostra li raccona
Per cavar fuori dalla chiesa bombardata quell’enorme pala d’altare nel duomo di Fondi, per farle superare quell’inferriata, ci vollero ore. Per fortuna quella volta a dare una mano a Emilio Lavagnino c’era un volontario del posto, che gli prestò anche l’autocarro. Sarebbe stata dura, stavolta, trasportare l’an –
nunciazione di Cristoforo Scacco, capolavoro datato 1499 e destinato poi a tornare nella cittadina laziale, sul tetto della sua Topolino a bordo della quale, con un lavoro matto e disperatissimo epperò estremamente lucido e metodico, batteva da mesi le chiese e i borghi del Lazio: alla ricerca di tesori d’arte, soprattutto sacra (lì musei non ce n’erano), da catalogare e nascondere. Per far andare quella malmessa Topolino, tre gomme gliele aveva prestate Palma Bucarelli, allora giovane direttrice della Galleria Nazionale d’arte Moderna a Roma e destinata a diventare una delle figure chiave per l’evoluzione del gusto artistico e museale in Italia. Anche lei partecipava alla stessa impresa. C’era da nascondere tutto quel che si poteva in Vaticano: unico rifugio a quel punto, quando ormai l’italia era diventata terra d’occupazione e di saccheggio per i nazisti. Come fece a portare la grande Pala Scacco fino in Vaticano senza farsi beccare dai nazisti, lì dalle parti di Anzio nel 1943, è un mistero, o meglio un romanzo. Anzi sarebbe una storia da film. Un film tipo Monuments Men di Georg Clooney, dedicato alla mitica task force alleata (quasi trecento tra uomini e donne studiosi di arte e cultura) allestita per salvare “Monuments, Fine Arts, and Archives” e che mise in sicurezza e recuperò moltissimo patrimonio europeo alla fine della guerra. I francesi, che per celebrare le proprie glorie non hanno rivali, ci avevano già fatto nel 1964 un filmone americano con Burt Lancaster, Il treno, sul rocambolesco salvataggio partigiano delle opere d’arte “degenerata” che i nazisti in fuga volevo comunque trafugare. A rimediare adesso c’è finalmente una bella mostra alle Scuderie del Quirinale, “Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra” (fino al 10 aprile 2023). Racconta una storia che l’italia degli addetti ai lavori ben conosce, che gli italiani della Great Generation della Ricostruzione ben si ricordano, ma che finora è stata narrata in modo sempre frammentario. Invece adesso quella storia è illustrata in bellezza da cento opere d’arte italiana che furono salvate dalla distruzione bellica e soprattutto dalla violenza predatoria dei nazisti. In una esposizione che è anche una grande ricostruzione storica e archivistica, ma godibile appunto come un film, perché è innanzitutto “una storia di storie”, come spiega Mario De Simoni, presidente di Ales e padrone di casa, mentre ancora saliamo la scala elicoidale delle Scuderie del Quirinale. “E’ una storia di donne e di uomini, di eroismi difficili e silenziosi, di opere d’arte protette, perse, salvate e infine recuperate”, dice, “che segna anche il cammino di come si sia costituita, proprio attraverso quelle vicende drammatiche, la consapevolezza della nostra identità nazionale come identità culturale, storica, territoriale”. Una mostra che ha dunque un primo grande merito – le istituzioni pubbliche esistono apposta, del resto – che è quello di ri-dire agli italiani quale sia il valore non soltanto estetico della storia dell’arte: “Oggetti sacri dell’umana chiesa universale che vanno collocati in alto come un tesoro comune”, per usare la celebre definizione di Benedetto Croce puntualmente richiamata in catalogo (Electa).
La storia che ha per primo protagonista Pasquale Rotondi, allora giovane storico dell’arte (era nato nel 1909), direttore della Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, e poi Soprintendente nelle Marche, ha inizio nel 1939. Anzi in verità un po’ prima, nel 1937. E si fa drammatica già nel 1938, quando Hitler compì la sua cruciale visita in Italia e rimase folgorato (d’invidia) per la ricchezza del patrimonio artistico e decise che prima o poi sarebbe stato suo. Covando uno dei suoi sogni folli, trasformare la cittadina austriaca di Linz in una culla apocrifa del Rinascimento, scopiazzata da Firenze. Non tutto fu subito razzia, ovviamente. Il Discobolo Lancellotti, che quel geniaccio di Leni Riefenstahl aveva “trasformato” in un atleta vivente nel prologo del suo film per le Olimpiadi del 1936, venne acquistato, o meglio ne fu forzata la vendita. Come anche per alcuni dei capolavori che finirono nella tenuta museale di Hermann Goering. Fu allora che il ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai, l’uomo che un anno prima era stato tra i più intransigenti sostenitori delle leggi razziali, ma era pure uomo di cultura e fiero nazionalista, lo incaricò di un’operazione disperata e geniale: individuare, censire attraverso la collaborazione di direttori e sovrintendenti, nascondere e custodire in un luogo sicuro il maggior numero possibile di opere d’arte, per salvarle dai rischi della guerra a dall’ingordigia dell’alleato. Rotondi si mise all’opera, senza mezzi e quasi senza fondi, viaggiando tra Roma e mezza Italia con la sua Balilla e il fido autista. E ci mise del genio. Dapprima il sito da trasformare in deposito nazionale fu individuato nel Palazzo ducale di Urbino. Rotondi non ci mise molto a capire che sarebbe stata una trappola: vicino alla ferrovia e a una caserma, su una linea di inevitabile passaggio strategico. Convinse Bottai a optare per la Rocca di Sassocorvaro, nel Montefeltro; in un battibaleno l’attrezzò di luce, allarmi, linea telefonica. E iniziò il ricovero di un numero impressionante di opere, carte, arazzi, statue: tutte catalogate, chiuse in casse, nascoste e protette con sacchi di sabbia e persino contrafforti in mattoni. Si giunse allo strabiliante numero di ottomila, e quando lo spazio non fu più sufficiente, fu individuato un altro sito nel Palazzo dei principi di Carpegna. Tutto in pochi mesi. Un’impresa, con i mezzi dell’epoca e la tutela occhiuta dei nazisti onnipresente, che ha dello strabiliante. Anche per la grande qualità delle scelte effettuate, come racconta con passione erudita il giovane storico dell’arte Luigi Gallo, oggi direttore della Galleria Nazionale delle Marche, che insieme alla storica dell’arte Raffaella Morselli ha curato la mostra, compiendo anche un prezioso lavoro di scandaglio archivistico: “Il lavoro fu svolto con validissimi criteri razionali e moderni”, spiega passeggiando per le sale: “Fu chiesto a direttori e funzionari di stilare con precisione tre tipi di elenchi: le opere di prima classe da mettere al sicuro per prime, quelle inamovibili ma che andavano protette, e quelle di minore interesse. Si organizzò un sistema molto preciso, anche calcolando l’enorme quantità del materiale e la dispersione territoriale”. Un aspetto interessante che emerge della mostra è il “gusto storico” dell’epoca: che cosa si considerava capolavoro e che cosa no. “E’ anche una bellissima storia generazionale”, spiega Gallo: “Rotondi, Lavagnino, Fernanda Wittgens, Palma Bucarelli, hanno più o meno la stessa età, molti hanno studiato a Roma con Pietro Toesca, primo in Italia ad avere una cattedra di storia dell’arte, il loro gusto era inquadrato soprattutto per il Trecento e il primo Rinascimento, oggi forse avremmo ‘salvato’ per prime opere diverse”.
Ma qui inizia la seconda parte di questa avventurosa storia. Rotondi è un giovane storico dell’arte cresciuto in una nuova generazione universitaria, come i suoi colleghi capisce per istinto e subito sia il valore universale del patrimonio artistico, sia l’enormità della minaccia portata da una guerra “moderna”, che si sarebbe svolta dentro ai confini, mettendo a repentaglio monumenti e siti d’arte. E conosce la natura predatoria che anima i nazisti. Entrano così in scena, e ad essi e alle loro città è dedicato il secondo piano delle Scuderie, uno straordinario gruppo di giovani studiosi e funzionari, gli uomini e donne “che fecero l’impresa”. Che con intelligenza e abnegazione salvarono l’arte italiana. Fernanda Wittgens, che a Brera “sostituì” Ettore Modigliani e poi divenne la prima direttrice di un museo nazionale in Italia, Noemi Gabrielli in Piemonte, l’archeologa Jole Bovio in Sicilia, che fu tra l’altro una fra i primi collaborare con i Monuments Men dopo lo sbarco, il soprintendete delle Gallerie della Campania, Vincenzo Sorrentino, che nelle sue memorie scriverà: “Pur di sottrarre al sempre maggior pericolo quante più per d’arte, e quanto più sollecitamente, finimmo per servirci di qualsiasi mezzo fosse più prontamente disponibile”.
L’abnegazione, la conoscenza, la passione, persino lo sprezzo del rischio fanno parte di queste storie. In mostra ci sono alcuni spartiti originali di Rossini: erano in una cassa a Sassocorvaro, nel 1943, Rotondi aveva furbamente fatto togliere tutte le etichette. Giunsero le SS. Vollero aprire una cassa a caso: trovarono quei pentagrammi di “nessun valore” e se ne andarono. Nella cassa a fianco, ricorderà Rotondi, c’era la Tempesta di Giorgione. Quella stessa Tempesta che tempo dopo Rotondi nasconderà addirittura sotto il suo letto in casa sua. Particolari rocamboleschi che dicono di una dedizione assoluta. E qui torna in campo Lavagnino. La Linea gotica era arrivata alle Marche, non era più possibile tenere i depositi lì. Laboriose trattative portarono a concludere che la scelta più sicura era affidare quelle circa diecimila opere d’arte alla Città del Vaticano, extraterritoriale e neutrale. Era il dicembre del 1943. Con Lavagnino, a trattare la cosa per il Vaticano, c’era il sostituto alla segreteria di Stato, monsignor Montini. Lavagnino e Rotondi si conoscevano dal tempo degli studi. Viene il momento in cui Rotondi deve affidarsi al suo ruolo di mediatore. Lavagnino racconterà così il loro primo incontro ai piedi della Rocca di Sassocorvaro: “Mi dice chiaramente che se non ci fossi io di mezzo di cui conosce da anni i sentimenti, lui ad altri non avrebbe dato nulla”. Fiducia personale, nessun potere o garanzia dietro le spalle, una situazione pericolosa. Fu così che inizia, nottetempo, sotto gli occhi dei tedeschi, il ritorno di circa cento camion dalle Marche al Vaticano. Con mille difficoltà. Una parte di quei camion, infatti, prenderà invece la strada della Germania. Molti capolavori finiranno nella misteriose miniere di sale di Altaussee, in Austria, dove Hitler le aveva fatte nascondere nel febbraio del 1944 e che furono miracolosamente salvate, ancora una volta, per un coraggioso atto di eroismo individuale di alcuni ufficiali tedeschi.
Questa storia che non è solo avventura, ma è anche una parte importante della nostra identità come paese e stato democratico, è ora testimoniata attraverso cento opere, tra cui la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, l’immacolata di Federico Barocci, il Salvator Mundi di Bartolomeo della Gatta, il
Cerbiatto di Ercolano che per breve tempo pascolò il giardino di Goering, il bronzo della Danzatrice di Ercolano, ma anche artisti contemporanei come Medardo Rosso. A fianco, le fotografie di depositi riempiti di sacchi di sabbia, di casse sottratte alle macerie, di uomini e donne al lavoro con mezzi di fortuna. Sempre con quella consapevolezza: chi salva un’opera d’arte salva la coscienza e l’identità di un paese. Una mostra che si attraversa quasi come un film – in un video una sequenza dell’episodio fiorentino di Paisà: l’infermiera inglese Harriet e il suo amico Massimo che attraversano di nascosto il Corridoio Vasariano colmo delle casse di legno che proteggono le opere – restituendo con immediatezza il senso e la difficoltà di quella che davvero fu una grande impresa. Impresa che non finì con la liberazione; ci fu poi tutto il periodo, ufficialmente non ancora concluso, della ricerca e delle restituzioni del patrimonio finito all’estero: ancora oggi, ma ormai si tratta solo di opere minori che difficilmente saranno ritrovate, se ne occupa il Comando del Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale. Nell’ultima sala, fa gran mostra un altro dei capolavori liberati: è la grande tela della
Danae di Tiziano, che era finita nella camera da letto di Goering. Dietro al dipinto, una grande fotografia ritrae un uomo in poltrona che ammira quel quadro. Non è Goering, ovviamente; è Rodolfo Siviero, ambigua e affascinante figura di agente segreto e storico dell’arte, che era stato al servizio dell’ovra ma che al termine della guerra fu un dei protagonisti per conto dell’italia del ritrovamento e del rientro di tanti capolavori: sempre per dire, come nel caso di Bottai, che le linee della vita sulle mani degli uomini non sono sempre diritte. La Danae andò subito in mostra alla villa Farnesina in una mostra che si intitolava “Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania”. Era l’autunno del 1947, nasceva una nuova Italia.

Fonte: Il Foglio