Nacque a Taurisano (Lecce) nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1585 da Giovan Battista (1514-1606), sovrintendente prima dei Gattinara Lignana duchi di Taurisano e, poi, dei De Castro, che ne ereditarono il feudo, e da Beatrice López de Noguera, figlia di un ricco arrendatore delle regie dogane di Puglia e Basilicata. Il padre proveniva da Tresana o forse da Aula, frazione di Tresana, nella Lunigiana.
Ben poco è noto dell’infanzia di Vanini e quasi nulla è dato sapere della sua prima formazione taurisanese o salentina. Non è noto quali furono i suoi primi precettori, ma non è escluso che abbia seguito i classici corsi del trivio e del quadrivio sotto la tutela dei gesuiti, come si evince da una lettera del 17 febbraio 1612 dell’ambasciatore inglese a Venezia, Dudley Carleton (in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, 2005, 2014, doc. LVII, p. 590). Nel 1601 si recò a Napoli per seguire i corsi di diritto e nel 1603 prese i voti, con il nome di fra Gabriele, nel convento napoletano del Carmine maggiore, dove era ancora vivo il ricordo di Paolo Antonio Foscarini, fautore del copernicanismo. Qualche anno più tardi, il 1° giugno 1606, conseguì la laurea in utroque iure presso il Collegio dei dottori annesso allo Studio partenopeo. La lunga permanenza (1601-10) a Napoli induce a ritenere che la formazione in quella città, nei suoi risvolti giuridici, poetico-letterari, filosofici, teologici e scientifici con l’annessa propensione all’admirandum e all’arcanum, fu più consistente e più solida di quella padovana, che durò poco più di un anno, dall’ottobre del 1610 al 28 gennaio 1612.
Al soggiorno napoletano risale la sua prima produzione filosofica, il De generatione et corruptione, il De contemnenda gloria, il Liber physico-magicus e l’Apologia pro Mosaica et Christiana Lege, tutte perdute. I suoi prematuri interessi di stampo naturalistico sono forse testimoniati dalla visita nel 1608 al Museo di Ferrante Imperato in compagnia dei confratelli Giovanni Maria Ginocchio e Bartolomeo Argotti. Nel febbraio del 1610 conseguì presso la diocesi partenopea la licentia concionandi e tentò di scalare i primi gradini della carriera ecclesiastica, ma la sua aspirazione al diaconato fu forse contrastata dall’arcivescovo Ottavio Acquaviva. Nell’autunno dello stesso anno si trasferì a Padova nell’intento di seguire i corsi accademici in teologia o forse in artibus. Sulla sua decisione influì probabilmente il distacco dalla terra natia: nel 1606 era morto il padre e nel corso di appena un biennio (1606-08), il giovane Giulio Cesare, attraverso una serie di operazioni notarili, aveva provveduto a dare una definitiva sistemazione al proprio patrimonio (procurationes del 20 giugno 1606, 12 settembre 1607 e albarano del 1607, in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., docc. XLVI-XLVIII, pp. 566-573).
A Padova Vanini trovò un ambiente culturale assai più avanzato rispetto a quello napoletano, sebbene gli studi di Eugenio Garin, di Charles B. Schmitt, di Paul Oskar Kristeller e di Antonino Poppi abbiano notevolmente modificato la linea interpretativa che della cosiddetta Scuola di Padova era stata data da Ernest Renan e da John Randall soprattutto in merito al suo presunto carattere eterodosso.
Il 28 gennaio 1612 un grave provvedimento disciplinare del generale dell’Ordine carmelitano, Enrico Silvio, mirò a relegarlo in un oscuro convento del Cilento. Si trattò certamente di una censura di carattere disciplinare, alla quale però non furono estranee motivazioni di sapore dottrinale e teologico. Perdute le speranze di successo nel mondo cattolico, Vanini, associatosi a Ginocchio, preferì tentare la fuga in Inghilterra, dove forse sperava di affermarsi come filosofo-teologo, critico dei principi del Concilio tridentino. La via della fuga fu accuratamente preparata da Dudley Carleton, che lo affidò alle cure dell’amico John Chamberlain e lo pose sotto la protezione del potente primate d’Inghilterra, George Abbot, arcivescovo di Canterbury, il quale lo ospitò a Lambeth Palace fin dall’arrivo a Londra, il 20 giugno 1612. L’8 luglio dello stesso anno Vanini pronunciò nella Mercers’ Chapel l’abiura del cattolicesimo, alla presenza di Francis Bacon, in veste politica.
Nonostante gli occasionali incontri con Bacon e una più consistente amicizia con Isaac Casaubon, ben presto l’Inghilterra si rivelò tutt’altro che l’agognata terra promessa; il difficile rapporto con Abbot e con il suo intransigente rigorismo etico indusse Vanini a riprendere i contatti con il mondo cattolico per il tramite dell’ambasciatore spagnolo a Londra, Diego Sarmiento de Acuña, e del nunzio di Francia, Roberto Ubaldini. Nel marzo del 1613 egli fece pervenire a Paolo V un memoriale, andato perduto, il cui contenuto è noto da un verbale della congregazione del S. Uffizio (Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la Dottrina della fede, S. O., Decreta, 1613, cc. 166, 168; in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. XC, p. 645). Si attesta così che, insieme al confratello Ginocchio, Vanini chiese al papa l’assoluzione in foro fori, la liberazione dai voti della religione del Carmelo e la possibilità di vivere in abito secolare. Le sue proposte furono esaminate dal S. Uffizio nelle sedute dell’11 aprile e del 22 agosto 1613 (Decreta, 1613, cc. 413-414; in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. XCIV, p. 649), in cui il pontefice promise il perdono, previa comparizione spontanea e formale abiura della religione anglicana.
Nel frattempo Abbot concesse al filosofo di visitare le università di Cambridge e di Oxford, ma gli mise alle calcagna delle spie affinché provassero i suoi segreti intrighi con il mondo cattolico. Venuto a conoscenza del suo tentativo di lasciare l’Inghilterra, il 2 febbraio 1614 Abbot pose Vanini agli arresti, dapprima in Lambeth Palace e in seguito (dal 14 febbraio) nella Gatehouse. Il 15 febbraio 1614 lo fece processare davanti alla High commission (costituita dallo stesso Abbot e dai vescovi James Montegu, John King, Richard Neile e Lancelot Andrews). Secondo il verbale della second examination (Londra, Archives of the Archdiocese of Westminster, Series A, XII, n. 23, cc. 49-52; in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CX, p. 674) egli fu accusato di aver avuto contatti con i cattolici imprigionati a Newgate, di aver tacciato di antitrinitarismo e di arianesimo il calvinismo e il puritanesimo britannico e di essere miscredente per aver letto i libri di Niccolò Machiavelli e di Pietro Aretino «super institutiones» (con evidente riferimento al Principe del primo e al Ragionamento delle corti del secondo). L’interrogatorio si chiuse con una Declaratio, in cui Vanini riaffermò la sua fede cattolica e spiegò di essersi rifugiato in Inghilterra per sottrarsi alle ingiuste persecuzioni di Enrico Silvio. Nei reports trasmessi a Montegu, a King e a Carleton (datati rispettivamente 4 febbraio, 22 febbraio e 26 marzo 1614, in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., docc. CIV, CXXV, pp. 568, 704), Abbot ironizzò su tale dichiarazione che sovvertiva il discorso di abiura pronunciato nel luglio del 1612, in cui Vanini aveva dichiarato di rinunciare al ‘papismo’ e alle ‘opinioni pontificie’ e di voler vivere e morire nella fedeltà alla religione inglese. Ironicamente il primate interpretò tali affermazioni come rinuncia a diventare papa e come volontà di essere fedele alla Chiesa inglese di due secoli prima.
Fuggito dalla Gatehouse con l’appoggio dell’ambasciatore spagnolo e con il sotterraneo consenso dello stesso Giacomo I d’Inghilterra, Vanini fu accolto nelle Fiandre dall’ambasciatore Felipe Cardona, marchese di Guadaleste, e successivamente dal nunzio apostolico Guido Bentivoglio, che impose ai due ex transfughi l’abiura dell’anglicanesimo e il rientro a Roma. Ma i due frati rifiutarono di farlo, nella convinzione che l’abiura avrebbe comportato l’ammissione di una responsabilità in foro conscientiae e non in foro fori come essi avevano auspicato. Invitato a raggiungere Roma, Vanini si recò invece dal cardinale Roberto Ubaldini, chiedendo di pubblicare con licenza della congregazione del S. Uffizio un’Apologia pro Concilio Tridentino, in 18 libri, perduta. Ma ancora una volta le autorità ecclesiastiche si dimostrarono interessate, più che a esaminare il testo, a riportare a Roma l’ex transfuga per processarlo nel tribunale del S. Uffizio. Tale fu, infatti, il suggerimento di Ubaldini (lettera del 31 luglio 1614 all’inquisitore romano, Giovanni Garzia Millini, in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CXLI, p. 738) e tale fu anche la proposta del pontefice (decreto del S. Uffizio datato 28 agosto 1614, Archivio della Congregazione per la Dottrina della fede, S. O., Decreta, 1614, cc. 420-421; in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CXLII, p. 739).
Vanini si guardò bene dal raggiungere Roma e si fermò a Genova, dove strinse amicizia con Scipione Doria, che gli affidò l’incarico di insegnare filosofia al figlio Giacomo. Il 19 gennaio 1615, a seguito dell’arresto di Ginocchio per ordine dell’inquisitore genovese, Vanini intuì di essere nel mirino del S. Uffizio. Si affrettò a lasciare la Repubblica e si recò a Lione, dove diede alle stampe, ben dissimulato in un impianto pseudoapologetico, l’Amphitheatrum aeternae providentiae. Dopo un ulteriore incontro con Ubaldini, nel luglio del 1615, ruppe definitivamente il legame con il nunzio e cercò protezione e successo negli ambienti di corte e nei circoli libertini che proliferavano nella capitale francese. Ben presto diventò il maître à penser degli intellettuali, per lo più poeti, che facevano capo a Théophile de Viau. Parigi gli aprì le porte dell’agognato successo e gli offrì la protezione di personalità di primo piano, quali Arthur d’Épinay de Saint-Luc, François de Bassompierre, Nicolas Brûlart, Adrien de Monluc conte di Cramail e, infine, Henri II duca di Montmorency. All’interno di tale milieu culturale poté respirare quel clima di libertà intellettuale che lo indusse a dare alle stampe il più scopertamente eterodosso De admirandis. Il libro ebbe un immediato succès de scandale ma, ad appena un mese di distanza dalla pubblicazione, il 1° ottobre 1616, la facoltà teologica della Sorbonne intervenne con una sentenza di condanna (Parigi, Archives nationales de France, Reg. MM 251, 1608-1633, c. 68; in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CLVIII, p. 755) e ne impedì la circolazione con la clausola del donec corrigatur.
Intanto con la fine della guerra civile si chiudeva il capitolo della forte influenza dell’italianismo nella corte francese. Concino Concini ed Eleonora Galigai venivano assassinati e Luigi XIII avviava la sua politica di normalizzazione e di restaurazione cattolica del Regno. Per l’autore del De admirandis e per i suoi protettori l’aria di Parigi diventava irrespirabile. Costretto a cercare un rifugio più sicuro, Vanini si trasferì nella cattolicissima Tolosa sotto la tutela di Adrien de Monluc. Lì, celato nelle vesti dell’oscuro Pomponio Usciglio, visse tra la sfarzosa residenza del petit jardin e dell’Hôtel de rue Jouxtaigues e l’Hôtel dei Noailles, ed ebbe stretti rapporti con i poeti dell’Accademia dei Filareti, fondata da Alejandro de Luna.
La situazione precipitò nel giugno del 1618, allorché giunse ai Capitouls una denuncia anonima («sur l’advis qui fut donné») i cui capi d’accusa sono sconosciuti. Né danno in proposito ragguagli più sicuri le fonti di prima mano. François de Rosset (Histoire V, in Les histoires memorables et tragique de ce temps, Paris 1619) dice che l’istruttoria fu condotta da François de Bertrand, al quale Vanini avrebbe dichiarato di non credere in Dio, di ritenere che i testi profetici hanno trasmesso menzogne sulla creazione del mondo, di giudicare i profeti affetti da qualche malattia dello spirito, di tenere i miracoli in conto di favole e di reputare Cristo un impostore. La cronique 290 (in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CLXXIII, p. 768), redatta da Nicolas de Saint-Pierre, capo del Concistoro, allude stranamente alla ‘leggenda nera’ secondo cui Vanini si sarebbe circondato di dodici apostoli per diffondere in Francia il verbo dell’ateismo. Ciò che sorprende è che tale leggenda è strettamente legata al nome ‘Giulio Cesare’, poiché secondo le fonti Vanini avrebbe voluto conquistare la Francia all’ateismo, a imitazione dell’antico dittatore romano che la conquistò con le armi.
Il 2 agosto 1618 i due capitouls Paul Virazel e Jean d’Olivier, dopo averlo cercato per più di un mese, arrestarono Vanini nella casa dei Noailles nel quartiere della Daurade; lo trovarono in possesso «di una bibbia non vietata e di parecchi suoi scritti che trattavano di questioni filosofiche e teologiche», sul cui frontespizio – si può essere certi – il filosofo aveva apposto il proprio nome. Trovandosi tra le mani un filosofo e non un oscuro astrologo, i Capitouls lo deferirono alla Cour de Parlement, il 5 agosto. Il processo, che fu forse uno dei più oscuri della storia moderna, si protrasse per oltre sei mesi probabilmente per la difficoltà di trovare testimoni a carico.
Anche su questo punto le fonti appaiono poco affidabili. La presunta testimonianza del nobile aquitano Francon, eroicamente morto nella battaglia di Montauban (1621), è verosimilmente un’invenzione del gesuita François de Garasse (Doctrine curieuse, Paris 1623). Non meno inattendibile è la biografia di Marguerite di Senaux, scritta nel 1689 da Thomas Souèges e recentemente portata alla luce da Didier Foucault, secondo la quale Marguerite, prima di darsi nell’ottobre del 1618 alla vita monacale, avrebbe indotto due domestici di Vanini a deporre contro di lui. Ma il racconto di Souèges non sembra essere coerente con lo svolgimento del processo, perché i due testimoni, al momento dell’arrêt de mort (in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini…, cit., doc. CLXXII, p. 766), si sarebbero rifugiati in Spagna per timore di rappresaglie.
Gravato da tale fitta nebbia sulle testimonianze, il Parlamento, sabato 9 febbraio 1619, riunite in seduta plenaria la Tournelle e la Grand’ Chambre, sotto la presidenza di Gilles Le Masuyer, sulla base dell’arringa accusatoria pronunciata da Guillaume de Catel, illustre storico tolosano, condannò Vanini nelle vesti di Pomponio Usciglio, forse perché si convinse che il nome Giulio Cesare fosse fittizio, funzionale alla diffusione dell’ateismo. In quello stesso giorno, condotto davanti alla ‘grande porte’ della cattedrale di S. Stefano e invitato a fare ‘ammenda onorevole’ a Dio, al re e alla giustizia, Vanini oppose il suo netto rifiuto. Il corteo proseguì fino alla place du Salin, ove il boia eseguì scrupolosamente la sentenza: strappò al condannato la lingua con le tenaglie, lo appese alla forca, lo gettò sul rogo e, infine, sparse al vento le sue ceneri mortali.
Opere. Amphitheatrum aeternae providentiae divino-magicum, christiano-physicum, nec non astrologo-catholicum adversus veteres philosophos, atheos, epicureos, peripateticos et stoicos, Lugduni, apud viduam Antonii de Harsy, 1615 (rist. anast. Galatina 1979, trad. it. Anfiteatro dell’eterna provvidenza, a cura di F.P. Raimondi – L. Crudo, Galatina 1981); De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis libri quatuor, Lutetiae, apud Adrianum Perier, 1616 (ed. anast. Galatina 1985, trad. it. I meravigliosi segreti della natura, regina e dea dei mortali, a cura di F.P. Raimondi, Galatina 1990); edizioni critiche: Opere, a cura di G. Papuli – F.P. Raimondi, Galatina 1990; Tutte le opere, a cura di F.P. Raimondi – M. Carparelli, Milano 2010.
Fonti e Bibl.: La più completa raccolta di documenti coevi è in F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento: con una appendice documentaria, Pisa-Roma 2005, Ariccia-Roma 2014. Le testimonianze sono pubblicate, a cura di F.P. Raimondi, in lingua originale e in traduzione italiana nei siti htt://www.iliesi.cnr.it/ AGCV/, www.studivaniniani.it (29 febbraio 2020).
Sul pensiero vaniniano sono essenziali i contributi di A. Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rinascimento, II, G.C. V., in Giornale critico della filosofia italiana, XXXVII (1958), pp. 201-244; É. Namer, L’æuvre de Jules-César V. (1585-1619): une anthropologie philosophique, in Studi in onore di Antonio Corsano, Manduria 1970, pp. 465-494 (trad. it. Un’antropologia filosofica, in Le interpretazioni di G.C. V., a cura di G. Papuli, Galatina 1975, pp. 121-151); A. Nowicki, Centralne kategorie filozofii Vaniniego,Warszawa 1970 (trad. it. parziale Le categorie centrali della filosofia di V., in Le interpretazioni di G.C. V., cit., pp. 153-316); J.-P. Cavaillé, Dis/simulations: Jules-César V., François La Mothe Le Vayer, Gabriel Naudé, Louis Machon et Torquato Accetto, Paris 2002, pp. 39-140; D. Foucault, Un philosophe libertin dans l’Europe baroque G.C. V. (1595-1619), Paris 2003; G. Papuli, Studi vaniniani, Galatina 2006; F.P. Raimondi, Monografia introduttiva, in G.C. Vanini, Tutte le opere, cit., pp. 7-313; Marcial Caballero, Jules-César V.: Averroïsme de Padoue et pensée libertine, Paris 2016; utili sono altresì gli Atti dei tre Convegni di studi a cura di F.P. Raimondi: G.C. V. e il libertinismo (Taurisano… 1999), Galatina 2000; G.C. V.: dal tardo Rinascimento al libertinisme érudit (Lecce-Taurisano… 1985), Galatina 2003; G.C. V.: filosofia della libertà e libertà del filosofare (Lecce-Taurisano… 2019), Ariccia-Roma 2019.
Di Francesco Paolo Raimondi – fonte: https://www.treccani.it/