Geraci: "Bene l'accordo sugli investimenti tra Ue e Cina, ma l'Italia rischia di non sfruttarlo"


AGI – L’accordo sugli investimenti tra Ue e Cina ha il merito di contribuire ad avvicinare Pechino agli standard occidentali, ma se l’Italia non risolve alcuni problemi d’approccio politico e culturale al mondo cinese rischia di perdere quest’occasione. Lo sostiene, in un colloquio con l’AGI, Michele Geraci, professore, economista, ex sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico con deleghe al Commercio estero.

“Anche se non siamo a conoscenza dei dettagli, va detto che il merito principale di questo accordo è che contribuirà a portare la Cina sugli standard occidentali, specie sulle loro politiche di accesso al mercato e di rispetto della proprietà intellettuale. Ma va detto che si tratta di un accordo più formale che di sostanza: la commissione Ue non ha facoltà di fare accordi sugli investimenti e bisognerà che si passi dai 27 stati membri”, spiega Geraci.

“Tengo a precisare però che questo accordo è stato discusso prima dell’esplosione della pandemia, e sappiamo che il mondo post-Covid è cambiato già e cambierà ancora. Rischia quindi di essere un accordo nato già superato”, continua il professore. Quanto ai rapporti Bruxelles-Washington dopo l’accordo, “è prevedibile che gli Usa reagiranno all’accordo con irritazione, cosi’ come hanno fatto l’anno scorso dopo il memorandum d’intesa sulla Via della seta”, ragiona Geraci.

“Ma Washington”, osserva, “deve comprendere che l’accordo le offre su un piatto d’argento una basa su cui appoggiarsi per nuovi accordi con la Cina, perché portano Pechino più vicina ai livelli occidentali. Qualsiasi accordo viene fatto tra Ue e Cina, o Usa o Cina, fa bene sia all’Europa che all’America”.

Accordi che però, teme Geraci, l’Italia rischia di non sfruttare appieno: “Ci sono diverse ragioni che mi fanno dubitare sulla capacità italiana di sfruttare questo accordo. In primo luogo, perché spesso interpretiamo gli investimenti all’estero fatti dalle nostre aziende come delocalizzazione, come azioni che portano le imprese a portare lavoro fuori dall’Italia. Poi, c’è lo scarso numero di grandi imprese capaci di fare questo genere di investimenti, necessari anche per fare da apripista alle Pmi, fattore che si accompagna alla generale poca conoscenza del mercato cinese che hanno le nostre imprese. Non da ultimo le questioni politiche interne: in Italia”, conclude Geraci, “il dibattito politico è fortemente polarizzato sul tema Cina, dall’origine del virus alla presunta propensione coloniale di Pechino. Questo non fa bene nè all’immagine dell’Italia in Cina, nè alle imprese che potrebbero subire il peso di questo dibattito sulle loro strategie di investimento”.

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Fonte: economia agi