Massimo Adinolfi
Se io fossi Daniela Santanché voterei a favore della mozione di sfiducia su Daniela Santanché. E sono pure certo, ragionevolmente certo, che la vera Daniela Santanché potrà anche chiedere alla maggioranza di centrodestra, nel dibattito parlamentare, di respingere la mozione, ma in cuor suo la voterebbe. Come potrebbe non votarla chi ha chiesto a ripetizione, negli anni, le dimissioni di questo e di quella, con una costanza, una tenacia, una determinazione e un’insistenza fuori del comune? Dimissioni del ministro Speranza, dimissioni del ministro Di Maio, dimissioni della ministra Boschi, dimissioni della ministra Azzolina, e chi più ne ha più ne metta (qualcuno ha contato le richieste di Santanché: diciotto, subito sotto gli scudetti dell’Inter). Ma Elly Schlein e Carlo Calenda, che proprio come me non sono Daniela Santanché, perché invece le chiedono, pur mettendo innanzi la premessa di essere garantisti? Garantista, sì, ma «davanti a un’accusa così grave», ragiona la segretaria del Pd, «non si può aspettare l’esito del processo». Il fatto è che garantismo significa precisamente questo: aspettare. Aspettare che la giustizia faccia i suoi passi; non condannare prima della sentenza; far parlare la difesa, non solo l’accusa; non trarre conclusioni affrettate sotto la spinta dell’opinione pubblica, non ricorrere a metodi spicci. Garantismo significa frapporre le garanzie proprio quando c’è solo l’accusa in campo, non ancora il processo e l’eventuale condanna.
Evidentemente, il garantismo di Elly Schlein non arriva sino a questo punto: cioè non arriva da nessuna parte, a meno che Schlein non ritenga che si è sufficientemente garantisti per il solo fatto che un processo, grazie a Dio, comunque ci sarà (quando ci sarà), benché non da esso vengano fatte dipendere le conseguenze politiche che si vogliono trarre presto, prestissimo. Anzi: subito. Meglio: ora. Calenda è più prudente nelle parole, ma va giù identico nella sostanza: le dimissioni, spiega, sono dovute «non perché indagata o eventualmente rinviata a giudizio, ma perché i comportamenti di cui abbiamo evidenza non sono compatibili con la carica di Ministro». Qui il discorso si sposta su un piano etico: indipendentemente da come vadano le cose a processo, la posizione di Santanché è ormai indifendibile sul piano morale. La compatibilità di cui si tratta non ha infatti natura politica, non riguarda l’operato del ministro, non attiene alle politiche del suo dicastero: il problema che si vuole porre nasce comunque – come ha rilevato Mariastella Gelmini, portavoce di Azione, parlando in dissenso da Calenda – da una vicenda giudiziaria. E anche in questo caso si finisce col chiedere a Meloni e al Parlamento di agire subito: prima del processo, ancor prima del rinvio a giudizio.
Elly Schlein lo chiede in nome della gravità delle accuse formulate, Carlo Calenda in nome di una stessa gravità, che non ha bisogno di formularsi in sede penale, perché è già tale su un piano precedente: quello morale, appunto. Ma la conclusione è la stessa: non c’è da aspettare, come si dice, che la giustizia abbia il suo corso. Ora, è possibile che un tale atto paghi politicamente. Io, in verità, ne dubito: se Daniela Santanché è, per i suoi comportamenti passati, pietra di scandalo del governo, forse all’opposizione converrebbe tenerla lì e cucinarsela bene, perché ad ogni occasione Giorgia Meloni ci inciampi su. Se il garantismo non paga, e perciò gli si tributano omaggi ipocriti, puramente formali, potrebbe forse essere sposato almeno per un simile calcolo. Ma la logica machiavellica che lo sottende (e di cui mi faccio interamente responsabile) non è tenuta in alcun conto, oggi, forse perché si ritiene che paghi molto di più innalzare il vessillo dell’indignazione morale e mostrarsi gravemente scandalizzati.
C’è una ragione per questo, di cui non è facile sbarazzarsi, e sta dalle parti del mito politico fondativo dell’identità dell’attuale centrosinistra. Se la parola “mito” è troppo ingombrante, diciamo pure: una memoria culturale a cui viene facile attingere, tutte le volte in cui si vuole tracciare un discrimine per distinguere «noi» da «loro». Questa memoria, nel centrosinistra, si attiva tutte le volte in cui si può tirare una linea che da Mani pulite giunge sino al presente, passando per l’antiberlusconismo prima e lo straordinario successo elettorale dei Cinque Stelle poi. Un simile filo rosso non costituisce solo una storia, non fornisce solo una narrazione, ma rappresenta anche una potente risorsa legittimante. È quella che dà senso, è quella che spiega, è quella che dà titolo a parlare. Sicché non c’è garantismo che tenga, non c’è cultura liberale che intervenga quando si può attaccare l’avversario politico, sventolando le carte di un’inchiesta. Il copione si ripete sempre uguale, con minime variazioni di dettaglio. E il garantismo che si afferma a parole sbanda alla prima curva, con la prima avversativa che suggella la dichiarazione: sono garantista, ma in questo caso, ma in tali circostanze, ma di fronte a così gravi accuse, ma per questioni di dignità personale, ma per senso delle istituzioni, ma per disciplina e senso dell’onore, ma per questo e per quello. Mancano il terremoto, una tremenda inondazione e le cavallette, e poi il campionario delle scuse è completo.
Fonte: Il Riformista