A duecento anni dalla morte del Bonaparte, il 5 maggio 1821 a Sant’Elena, ancora si discute del tramonto del suo genio militare. Al di là degli errori strategici di Napoleone e dei suoi ufficiali, la storia ci dice che il clima avverso accompagnò e non mancò di condizionare seriamente le ultime campagne militari dell’imperatore dei francesi. Furono forse le eruzioni di ben sette vulcani a scatenare il “generale inverno” e le piogge torrenziali?
di Ignazio Burgio
Le ultime campagne militari di Napoleone, dall’invasione della Russia nel 1812 alla battaglia di Waterloo nel 1815, vennero accompagnate da intensissime eruzioni vulcaniche in diverse parti del mondo. Poiché le avverse condizioni meteorologiche influirono pesantemente sull’esito delle sue battaglie, alcuni storici del clima si sono chiesti se i veri artefici del tramonto dell’imperatore dei francesi non siano stati proprio i vulcani, e gli sconvolgimenti climatici globali da questi provocati.
Come sottolineano gli esperti di storia militare, Napoleone e i suoi ufficiali non mancarono di commettere gravi errori strategici. La stessa invasione della Russia, a partire dal 24 giugno 1812, con un esercito appiedato, fu un grave errore a causa della vastità della nazione e delle grossissime difficoltà dei rifornimenti.
La successiva ritirata fu notoriamente disastrosa, e gli storici calcolano che dei 110 mila soldati napoleonici ripartiti da Mosca, al massimo 20 mila riuscirono a raggiungere l’alleata Polonia. Di tutti gli altri, i più fortunati vennero fatti prigionieri, ma i più rimasero vittime del gelo polare. Eppure la lunga carovana napoleonica era partita dalla capitale russa il 19 ottobre e contava di riparare in territorio polacco in 3 – 4 settimane, cosa non impossibile se dopo pochi giorni non fossero sopraggiunte tormente di neve e temperature di 22 gradi sotto zero (il 5 e 6 novembre).
Gli storici del clima come E. Le Roy Ladurie sottolineano come gli anni tra il 1812 ed il 1817 furono eccezionalmente freddi. Gli ultimi tre – come afferma la scienza – sicuramente a causa degli sconvolgimenti atmosferici del vulcano Tambora. Ma sin da prima che Napoleone mettesse piede in Russia, non mancarono altre intense eruzioni come quelle esplosive del vulcano La Soufriere, nell’isola caraibica di St. Vincent (27 aprile 1812) e dell’Awu in Indonesia (6 agosto) che liberarono entrambi nell’atmosfera enormi quantità di gas e polveri. I ghiacci dell’Artico e dell’Antartide conservano inoltre le tracce di un’altra colossale eruzione, verificatasi ancor prima, intorno al 1809, da parte di un vulcano non ancora identificato (forse nel Pacifico), la cui potenza fu 100 volte superiore rispetto a quelle dei due precedenti vulcani.
Grandi quantità di polveri e gas di origine vulcanica in atmosfera – come sottolineano i vulcanologi – sono in grado di ridurre l’azione dei raggi solari, sia perché creano un “velo” fisico davanti al sole, sia anche perché l’anidride solforosa (SO2) reagendo con l’umidità atmosferica si trasforma in acido solforico, le cui molecole sospese in aria respingono anch’esse la luce solare, contribuendo così a ridurre il riscaldamento della superficie terrestre. Inoltre il pulviscolo vulcanico in sospensione nelle nubi è in grado di incrementare sia le precipitazioni piovose sia quelle nevose in quanto le gocce di pioggia e i fiocchi di neve hanno necessità di trovare un nucleo di polvere per aggregarsi e formarsi. Già dopo tre mesi dall’eruzione le emissioni vulcaniche vengono diffuse dalle correnti atmosferiche in ogni parte dell’emisfero, quello a cui appartiene il vulcano in questione, mentre all’incirca dopo 300 giorni/un anno i gas e le polveri si ritrovano in maniera omogenea su tutta la superficie emisferica – e se il vulcano si trova in prossimità dell’equatore, anche nell’altro emisfero – con i relativi e proporzionali effetti sul clima per almeno due o tre anni.
Non si può escludere dunque che le eruzioni del La Soufriere e dell’Awu, insieme a quella colossale del misterioso vulcano, abbiano contribuito al precoce gelo polare – fino ai 31 gradi sotto zero alla fine di novembre – che i superstiti della “Grande Armata” dovettero subire durante la loro ritirata in Russia.
Con le ceneri e i gas dei tre vulcani ancora nell’atmosfera, pioggia, freddo e neve continuarono naturalmente anche nel successivo anno 1813, e tali condizioni climatiche ostacolarono le manovre militari di Napoleone in Germania e in Francia rendendo più difficili gli spostamenti, specie dell’artiglieria. Gli storici militari comunque ritengono che la sconfitta di Lipsia (18 ottobre) e l’invasione della Francia nei primi mesi del 1814, dipesero dalla superiorità numerica degli avversari di Napoleone e dalla loro strategia di combatterlo dovunque lui non fosse presente.
Alla fine del 1813 ripresero le emissioni vulcaniche in seguito ad altre due potenti eruzioni: quella Suwanosejima, nelle isole Ryukiu in Giappone, e quella del Vesuvio che tra il 25 e il 27 dicembre liberò anch’esso in aria una gran quantità di ceneri e gas. L’anno successivo un sesto vulcano, il Mayon nelle Filippine, risvegliatosi improvvisamente nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio del 1814, uccise 1200 persone e proiettò anch’esso nell’atmosfera un’enorme quantitativo di polveri e gas. Mentre Napoleone il 20 aprile iniziò il suo primo esilio all’Isola d’Elba, tra elementi residui delle precedenti eruzioni, e gran quantità delle nuove, l’atmosfera dell’emisfero nord della Terra si ritrovò tra il 1814 e il ‘15 già piena di emissioni vulcaniche. Ma in realtà non era nulla rispetto a quanto doveva ancora accadere.
Il 19 marzo 1815 Napoleone, fuggito dall’Isola d’Elba, rientrò a Parigi e si preparò a fronteggiare gli eserciti avversari. Dall’altra parte del mondo, il 5 aprile la tranquilla isola indonesiana di Sumbawa venne sconvolta dall’improvviso risveglio del vulcano Tambora che con una immane esplosione disintegrò ben 1400 metri della sua struttura montuosa. Nell’arco di sette giorni – dal 5 al 12 aprile – espulse qualcosa come 200 milioni di tonnellate di gas, e soprattutto una quantità inverosimile di polveri e ceneri: tra i 100 ed i 300 chilometri cubici, secondo differenti calcoli. Livelli così giganteschi di emissioni furono sufficienti sia a provocare in Indonesia più di 70 mila vittime, sia a sconvolgere già in breve tempo il clima globale, riducendo il passaggio e l’assorbimento della luce solare e favorendo le precipitazioni. Per dare un’idea, l’anno successivo, il 1816, è stato definito dai climatologi “l’anno senza estate” in quanto nel corso della primavera, ma in maniera sorprendente anche in estate, si ebbero gelate e nevicate, alternate a periodi più miti ma per nulla caldi. L’inverno che ne seguì fu rigidissimo, tanto nel Nord-America, quanto in Europa. Anche l’agricoltura ne soffrì moltissimo, e si ebbero dovunque gravi carestie.
Alcuni storici del clima danno alle emissioni del Tambora, sommate a quelle del Mayon, del Vesuvio e del Suwanosejima, la responsabilità delle piogge torrenziali che accompagnarono l’ultima spedizione napoleonica nella zona di Bruxelles (16 – 18 giugno 1815). Quel fatidico 18 giugno, il terreno di Waterloo in particolare risultò un interminabile pantano dove si affondava fino al ginocchio nella melma, rendendo impossibile l’uso strategico dell’artiglieria: i proiettili sarebbero affondati nel fango semiliquido e non sarebbero né rimbalzati né esplosi facendo così ben poco danno tra le fila nemiche. Lo si vide bene quando Napoleone, dopo aver atteso per tutta la mattinata che il sole appena uscito rendesse il terreno un po’ più asciutto, si decise verso mezzogiorno a usare i cannoni contro l’esercito inglese arroccato sull’altura di Mont St. Jean in attesa dell’arrivo dei Prussiani. Il terreno ancora fangoso assorbì infatti i proiettili che fecero molto meno danno del previsto. Quando, nel tardo pomeriggio, l’esercito prussiano si fece vedere in lontananza, allora il maresciallo francese Ney commise il fatale errore di attaccare di sua propria iniziativa con la sua cavalleria le truppe inglesi ancora compatte e per nulla indebolite dai cannoni napoleonici. Napoleone sconvolto tentò di rimediare mandandogli in appoggio la fanteria, ma sia questa sia la Guardia Imperiale, mandata anch’essa all’assalto, vennero alla fine sconfitte dalla superiorità numerica e strategica degli avversari.
Al di là degli errori strategici di Napoleone e dei suoi ufficiali, la storia ci dice che il clima avverso accompagnò e non mancò di condizionare seriamente le ultime campagne militari dell’imperatore dei francesi. Furono forse le eruzioni di ben sette vulcani a scatenare il “generale inverno” e le piogge torrenziali? Agli scienziati “l’ardua sentenza”.