Francesco PATRIZI


Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 81 (2014)
PATRIZI, Francesco. – Nacque il 25 aprile 1529 a Cherso (l’attuale Cres) in Dalmazia, allora territorio della Repubblica di Venezia, da Stefano, appartenente alla piccola nobiltà, e Maria Radocca.
Ricevuto il primo insegnamento nella città natale sotto la guida di Petruccio da Bologna, nel febbraio 1538 s’imbarcò sulla galea capitanata dallo zio Giovanni, impegnata nella campagna antiturca. Giunto a Venezia nel settembre 1543, riprese gli studi, inizialmente indirizzati alla mercanzia e in seguito alla grammatica e al latino. Tra il 1544 e il 1545 soggiornò a Ingolstadt, dove apprese i rudimenti della lingua greca, e fu presto in grado di leggere Aristotele e i suoi commentatori. Nel maggio 1547 si trasferì a Padova, presso il cui Studio seguì i corsi di Bernardino Tomitano, Marcantonio Passeri, Lazzaro Buonamici e Francesco Robortello, per quanto in una lettera del 12 gennaio 1587 a Baccio Valori si presenti come autodidatta. Manifestò interesse anche per la medicina, frequentando le lezioni di Giambattista Montano e Bassiano Lando, e fondamentale fu la lettura della Theologia di Ficino, che lo portò a percorrere la via di Platone e «tale fu il principio di quello studio che poi sempre ha seguitato» (Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 47). Alla morte del padre, nel 1551, fece ritorno a Cherso, per poi riprendere gli studi a Padova, dove tra il 1552 e il 1554 fu consigliere della Natio Dalmatica.
Nel 1553 pubblicò a Venezia (presso G. Griffio) alcuni scritti di redazione patavina, in un volume che riunisce La Città felice, Il dialogo dell’honore, il Barignano, il Discorso della diversità de’ furori poetici, e la Lettura sopra il sonetto del Petrarca, La gola, il sonno, e l’ociose piume. Tra questi, notorietà riscosse La città felice, non del tutto riconducibile alla letteratura utopica o al diffuso ‘mito di Venezia’, e in cui ai temi platonico-ficiniani, evidenti nella figura del sacerdote-sapiente, s’intrecciano, nell’interesse per l’organizzazione politica e militare della società, suggestioni machiavelliane.
Nel 1554 affari familiari lo richiamarono a Cherso, dove visse un prolungato soggiorno contrassegnato dalla malattia, la solitudine, il contrasto – come scrive a Valori – con lo zio «che l’havea guidato in galea per lo mondo» (Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 48), ed ebbe infine l’opposizione del Consiglio cittadino al tentativo di ottenere un beneficio ecclesiastico, ragione per cui si recò nel 1556 a Roma. Tra il 1556 e il 1557 si stabilì a Venezia, alla ricerca di protezione e, confidando nell’invito della corte estense, presentò al cardinale Ippolito d’Este l’Eridano (Ferrara, F. Rossi), poemetto dedicato alle origini mitiche di Ferrara e composto nel «nuovo verso heroico» in tredici sillabe. L’omaggio non ebbe l’esito auspicato e, nel 1558, Patrizi era ancora a Venezia, membro dell’Accademia della Fama, fondata nel 1557 da Federico Badoer, a lode del quale compose, tra il 14 settembre e il 1° ottobre 1558, il Badoaro, inedito fino al 1981. Importanti furono i rapporti stretti nell’Accademia, «una specie di proiezione nel reale della Città felice» (Bolzoni, 1983, p. 29), dei cui Capitoli fu firmatario nel 1559. L’orientamento antiscolastico della Fama, in contrasto con lo Studio patavino, si riflette nelle opere redatte in quegli anni, nel Discorso per le Rime di Luca Contile (Venezia, F. Sansovino e Compagni, 1560) e soprattutto nei dialoghi Della historia (A. Arrivabene, 1560) e Della retorica (F. De Franceschi, 1562).
Tratto essenziale della Historia è l’allargamento dei confini di tale disciplina, che Patrizi presenta come insieme degli eventi del passato, presente e futuro, rendendo quindi vana una sua organizzazione secondo regole aristoteliche – come proposto a Padova da Sperone Speroni e Robortello – sia per la «fragilità delle cose humane», sia per la scarsa oggettività delle narrazioni storiche, tali da porre in dubbio l’effettiva conoscibilità della storia stessa. Altrettanto polemici sono i dialoghi Della retorica, critica della visione aristotelico-ciceroniana della retorica quale arte del discorso e della persuasione essenziale a ogni scienza, che Patrizi riduce a ingannevole tecnica della parola, indifferente alla verità e alla realtà.
Il 10 agosto 1560 salpò per Cipro, quale amministratore dei beni di Giorgio II Contarini, conte di Zaffo, al quale pochi mesi prima aveva tenuto lezioni sull’etica aristotelica. Nel 1567 passò al servizio dell’arcivescovo di Nicosia Filippo Mocenigo, con compiti di natura amministrativa. Non per questo vennero meno gli interessi culturali, come testimoniano sia le lettere scambiate con l’amico Luca Contile, incaricato di seguire la stampa della Retorica, sia l’appassionata ricerca di manoscritti greci. Nel 1568 rientrò a Venezia – dove aveva fatto rapido ritorno anche nell’estate del 1562 –, entrando nella cerchia di Diego Hurtado de Mendoza y de la Cerda, viceré di Catalogna e grande bibliofilo. Al 1572 si data il primo viaggio a Barcellona, dove giunse portando con sé, su consiglio di Mendoza, numerosi codici, come ricorda nella lettera a Valori, «per necessità, e con speranza […] che vi sarebbon ben pagati» (Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 50). Nel 1569 era nuovamente a Venezia, dedito al commercio di libri con la Spagna, attività che si rivelò fallimentare per la sua inesperienza e l’inaffidabilità dei soci, un servitore originario di Famagosta, un non identificato reggino, in seguito i due figli della sorella. Pur tra difficoltà economiche e personali, Patrizi non tralasciò la riflessione filosofica, e nel 1571 apparvero (Venezia, D. De Franceschi) le Discussiones peripateticae, dedicate all’allievo Zaccaria Mocenigo, nipote dell’arcivescovo Filippo.
In questo violento attacco al sistema aristotelico – alla cui redazione fu spinto, come scrive alle carte preliminari, dai quesiti del giovane Mocenigo – Patrizi estrae brani dalle opere di Aristotele, disponendoli e scomponendoli in modo da mostrarne l’incoerenza. Un metodo che, pur criticato da Giordano Bruno nel De la causa come esempio di presuntuosa pedanteria, si rivela efficace nel mostrare l’intrinseca contraddittorietà e ineliminabile oscurità di tale filosofia, al di là del dichiarato rigore e degli artifici sofistici introdotti da Aristotele a sostegno delle proprie tesi. Scardinata è l’immagine stessa dello Stagirita, non più incarnazione della sapienza ma filosofo ambiguo, empio e immorale, colpevole di tradimento nei confronti della prisca philosophia, l’autentica tradizione sapienziale.
Nel 1581 le Discussiones, ampliate in quattro volumi, apparvero a Basilea – grazie all’appoggio di Girolamo Mercuriale e Theodor Zwinger, conosciuti a Padova – presso Pietro Perna, corredate di una storia della filosofia di Aristotele in cui emerge più apertamente la dipendenza di Patrizi da Zoroastro, Orfeo ed Ermete Trismegisto, figure «già sullo sfondo di questa distruzione di una filosofia troppo a lungo egemone, che dovrebbe liberare la conoscenza umana da un errore di due millenni» (Vasoli, 1989, p. 216).
Il 27 agosto 1571 un contratto per la stampa delle Imprese di Gerolamo Ruscelli lo legò a Leonora Caglia, erede del manoscritto dell’opera. L’edizione uscì nel 1572, curata da Patrizi per Comin da Trino, non senza contrasti con Leonora, sfociati poi in lite giudiziaria. Preferì quindi intraprendere un’attività editoriale autonoma, al segno dell’Elefanta. La produzione si limitò a tre libri, apparsi nel 1573: il Della mercatura et del mercante perfetto di Benedetto Cotrugli, il Della proportione et proportionalità di Silvio Belli e l’opuscolo Gli ordini della militia romana tratti da Polibio, con le incisioni realizzate dal nipote Giovanni Franco. Presso la Libraria dell’Elefanta – come scrive il 12 settembre 1573 a Giambattista Pigna – avrebbe dovuto vedere la luce anche un suo trattato sulla milizia romana, ma il dissidio sorto con il nipote determinò la cessazione dell’attività. Tali fallimenti lo spinsero a imbarcarsi per la Spagna, al fine di vendere i libri che vi aveva lasciato. Grazie a una lettera del vescovo di Tarragona Antonio Agustín, attento lettore delle Discussiones peripateticae, nel febbraio 1575 fu accolto a Madrid da Antonio Gracián, segretario di Filippo II, al quale presentò una memoria sul riarmo delle galere impegnate contro i Turchi, di cui resta un sommario (Madrid, Instituto Valencia de Don Juan, Archivo Francisco de Zabálburu, 148.96): fu l’occasione per trattare la vendita all’Escorial di 75 codici per 1000 reali in contanti e un ‘dispaccio’ di 660 ducati presso la Camera di Milano, somma riscossa solo nell’agosto del 1579.
Al ritorno dalla Spagna, la ricerca di stabilità economica e sociale lo condusse, nel 1577, a Modena quale precettore di Tarquinia Molza, che istruì alla filosofia e alla lingua greca.
Di tale insegnamento vi è traccia nelle brevi note De’ corpi e Del cielo, conservate nella Biblioteca Estense universitaria di Modena (in Lettere ed opuscoli inediti, 1975, pp. 171-173). Al soggiorno modenese risale la stesura, tra il 1° aprile e il 27 agosto 1577, de L’amorosa filosofia, a lungo inedita. Nel primo libro, Patrizi affida a ognuno dei nove interlocutori un encomio delle qualità fisiche e intellettuali di Tarquinia, la nuova Diotima.
Non si tratta di mero atto cortigiano, quanto di un espediente letterario che introduce ai successivi dialoghi, con l’esposizione di una filosofia dell’amore che si allontana dalla trattatistica di ispirazione ficiniana, non ripudiando l’amore volgare e presentando quindi l’uomo nella sua duplice natura materiale e spirituale. Sottraendosi alla «confusione in che si vede fin ora stato da tutto gli altri ragionato» (1577, 1963, p. 65), Patrizi privilegia l’indagine naturalistica e psicologica, fondata sul concetto di philautia o amor del sé, origine di ogni altra forma di amore. Di poco anteriore la redazione del Delfino ovvero del bacio, operetta anch’essa rimasta a lungo inedita e dedicata a un tema a torto trascurato «come che egli niuna forza, o valore, fosse in amore» (Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 136).
A Modena Patrizi fu raggiunto dal tanto atteso invito del duca di Ferrara, Alfonso II d’Este. Giunto nella capitale estense tra la fine del 1577 e l’inizio del 1578, fu per lui istituita la cattedra di filosofia platonica su iniziativa del segretario ducale, il filosofo Antonio Montecatini che, pur aristotelico, nutriva per Patrizi profonda stima. Nel 1578 lesse la Repubblica, mentre in seguito l’insegnamento fu dedicato, in generale, alla filosofia platonica, con un salario che dalle iniziali 390 giunse, tra il 1588 e il 1591, a 500 lire. Pur non esenti da difficoltà – nell’agosto 1579 si lamentò con il duca del mancato pagamento e di nuovo nell’ottobre 1589 –, furono questi per Patrizi anni sereni, stimato in ambiente accademico, apprezzato dal duca per la sua autorevolezza, integrato in una corte brillante e mondana, per quanto lo permettesse la natura discreta e schiva.
La sua perizia nella ‘scienza delle acque’ – maturata nell’Accademia della Fama, e messa alla prova in bonifiche di terreni a Famagosta – trovò espressione nel 1578 in un piano di regolamentazione delle acque del basso Po e dei suoi affluenti, il Discorso sopra lo stato del Po a Ferrara (in Lettere ed opuscoli inediti, 1975, pp. 193-411), in cui diede voce agli interessi estensi contro la Relazione sopra la visita del Po et altri fiumi redatta per Gregorio XIII da Scipione Di Castro, che, al contrario, riteneva che l’incanalamento del Reno non causasse l’arenamento del Po di Ferrara. Intensa fu, inoltre, la produzione editoriale. Nel 1583 – oltre alle edizioni degli Elementa theologica et physica di Proclo e dei Commentarii di Giovanni Filopono alla Metaphysica aristotelica (entrambe Ferrara, D. Mammarello) – apparve La militia romana di Polibio, Tito Livio, e di Dionigi Alicarnaseo (Ferrara, D. Mammarello), analisi dell’esercito romano, le cui virtù etico-militari è necessario recuperare in un’età in cui – così viene detto nella dedicatoria ad Alfonso II – «le armi Turchesche, hoggidì così tremende sono in comparatione delle Romane di poca, o di niuna stima». La redazione dell’opera, di forte ispirazione machiavelliana, risale al 1573, anno in cui avevano visto la luce presso l’Elefanta le sole tavole incise a corredo, incluse anche nel volume ferrarese. Seguì nel 1586 La Poetica, impressa in due parti separate (Ferrara, V. Baldini): la Deca istoriale, che si apre con un indirizzo a Lucrezia d’Este e un elogio dello Studio ferrarese, e la Deca disputata, arricchita in appendice del Trimerone.
Anche l’impianto della Poetica è antiaristotelico, nel radicale rifiuto del concetto di mimesis a cui si oppone l’idea del poeta quale ‘facitore del mirabile’. Il poeta non imita quindi la natura, ma crea un universo di parole che rimandano a verità arcane. Centrale è – come nel Discorso della diversità dei furori poetici del 1553 – il concetto di furore, espressione dell’originaria catena sapienziale, che dagli oracoli caldaici, dai versi sibillini, dai carmi orfici e pitagorici giunge a Esiodo e Omero. Si data al 1587-88 la redazione di altre cinque deche. Rintracciate da Paul Oskar Kristeller nella Biblioteca Palatina di Parma ed edite nel 1969 da Danilo Aguzzi Barbagli, le deche postume – La deca ammirabile, La deca sacra, La deca semisacra, La deca plastica e La deca dogmatica universale – mostrano la vastità di questa poetica del meraviglioso.

Non trascurabile la produzione scientifica. Nel 1587 uscì Della nuova geometria (Ferrara, V. Baldini), esposizione in quindici libri di una scienza «nobilissima per se, e giovevolissima, e che tocca del sopraumano», e dedicata – grazie alla mediazione del matematico della corte sabauda Giambattista Benedetti – a Carlo Emanuele di Savoia. Contemporanei i Philosophia de rerum natura libri II priores alter, de spacio physico, alter de spacio mathematico (Ferrara, V. Baldini), critica della cosmologia aristotelica che nel 1591 – insieme con una epitome latina della Nuova geometria – confluì nella Nova de universis philosophia (Ferrara, B. Mammarello).
Non mancarono polemiche. Nel 1584 Teodoro Angelucci attaccò nel Quod metaphysica sint eadem quae physica (Venezia) la lettura patriziana della metafisica aristotelica. Patrizi replicò con l’Apologia contra calumnias Angelutti (Venezia 1584), a cui l’avversario rispose con le Exercitationes (Venezia 1585), rimproverandogli di preferire al fulgido Aristotele i nebulosi Pitagora, Zoroastro ed Ermete Trismegisto. Un riflesso della disputa si ebbe nei Disceptationum libri V contra calumnias Angelutii del telesiano Francesco Muti (Ferrara 1588), così vicini alle tesi patriziane da indurre Pierre Bayle ad attribuirne la redazione a lui. Nel gennaio 1585 Patrizi pubblicò, su invito di Giovanni Bardi da Vernio, il Parere in difesa dell’Ariosto (Ferrara, G.C. Cagnacini e fratelli) in risposta a Camillo Pellegrino, che ne Il Carrafa (Firenze 1584) aveva criticato la scarsa coerenza psicologica dei personaggi dell’Orlando furioso. Il suo schierarsi a favore di Ariosto, in nome dell’imprevedibilità delle passioni umane, suscitò la reazione di Torquato Tasso, anch’egli residente a Ferrara, che pubblicò il Discorso sopra il parere fatto dal Sig. Francesco Patricio (Ferrara 1585). L’equilibrata risposta di Patrizi giunse nel 1586 con il Trimerone, in appendice alla Poetica. Un’ultima polemica lo oppose nel 1587 a Iacopo Mazzoni, che nella Difesa della Comedia di Dante, pubblicata in quell’anno, mise in dubbio l’attribuzione del Dafni e della Litiersa a Sositeo, avanzata nella Poetica. Seguirono repliche e controrepliche a stampa, sottoposte da Patrizi al giudizio dell’Accademia Fiorentina.
Data infine al 1591 (Ferrara, D. Mammarelli) la pubblicazione dell’opera in cui trova compiuta espressione il suo itinerario filosofico, la Nova de universis philosophia. Concepita in origine in otto parti, di cui solo quattro videro effettivamente la luce (Panaugia, Panarchia, Pampsychia e Pancosmia), l’opera propone, non senza farraginosità ed eccesso di erudizione, una visione dell’universo antitetica al modello aristotelico, basata non solo su Platone, ma su una tradizione di pensiero più antica e originaria, a cui si era già richiamato nelle Discussiones del 1571.
Fin dal 1580 Patrizi aveva manifestato l’intenzione di pubblicare un Thesaurus sapientiae, quale vera storia della filosofia testimoniata dai testi orfici, caldaici ed ermetici che negli anni aveva raccolto.
Pur persuaso che la tradizione ermetico-platonica non contrastasse – a differenza dell’aristotelismo – l’insegnamento cristiano, preferì per prudenza rimandarne la stampa a tempi più propizi. L’elezione nel 1590 di Niccolò Sfondrati al soglio pontificio (Gregorio XIV), già compagno di studi a Padova, lo convinse a ridare vita al progetto e il materiale apparve in appendice alla Nova de universis philosophia. L’intera opera fu dedicata al papa, e le singole parti a undici eminenti cardinali, tra cui Ippolito Aldobrandini, anch’egli conosciuto nel periodo patavino. Intento è infatti proporre alla gerarchia ecclesiastica un programma di rinnovamento culturale, una nuova e insieme antichissima filosofia, anteriore allo stesso divino Platone e autenticamente cristiana, tale da sostituire, nell’insegnamento universitario, l’empia dottrina aristotelica.
Il 3 ottobre 1591 il cardinale Ippolito d’Este – dopo aver fatto tappa, al ritorno dalla Polonia, a Ferrara – gli scrisse di desiderarlo a Roma. Patrizi non esitò, consapevole dell’inesorabile declino potere estense, e il 18 aprile 1592 giunse nella città papale, animato da grandi speranze e accolto con entusiasmo da Aldobrandini, eletto il 30 gennaio Clemente VIII. Ospite nel palazzo di Cinzio Aldobrandini, entrò a far parte del circolo erudito che vi si riuniva, ritrovando anche Tasso, con il quale riprese la frequentazione dopo il contrasto ferrarese. Per Patrizi fu istituita una cattedra di filosofia platonica e anche a Roma il platonismo poté quindi uscire «dalla clandestinità delle accademie», esposto «nella purezza dei testi originali e facendone emergere la profonda sostanza cristiana» (Muccillo, 1992, p. 212). Le lezioni si inaugurarono il 15 maggio, davanti a un ampio pubblico, con il Timeo; il contratto quadriennale prevedeva un salario annuo di 600 scudi, il più alto riportato nei rotuli della Sapienza, segno di grande favore da parte di Clemente VIII. Favore che non riuscì, però, a impedire nell’ottobre l’apertura di un procedimento censorio.
La natura eversiva della Nova de universis philosophia aveva superato il vaglio dell’Inquisizione ferrarese, ma non sfuggì ai più severi censori romani. Nel richiamarsi a una philosophia perennis quale verità originaria che si rinnova nel corso dei tempi, ma il cui nucleo antichissimo è inalterabile, Patrizi delinea, infatti, una tradizione precedente alla Scrittura, alle auctoritates scolastiche, al magistero stesso della Chiesa romana. La prima censura fu affidata a Pedro Juan Saragoza, socius del maestro del Sacro Palazzo, che estrasse numerose proposizioni teoretiche, teologiche e cosmologiche, oltre a condannare come erronea assurdità la mystica philosophia presentata in appendice, e nel 1593 pubblicata in forma autonoma nell’eretica Amburgo (Er. di J. Wolff) con il titolo di Magia philosophica. Il 7 novembre 1592 Patrizi fu convocato dalla Congregazione dell’Indice e grazie a Clemente VIII poté avere visione della censura. In dicembre replicò con l’Apologia (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 318, cc. 16r-58v), difendendo, sulla base della Scrittura e dei Padri, la cristianità della sua filosofia, e di poco posteriore è la Emendatio in libros suae novae philosophiae (Congregazione per la dottrina della fede, Index, Prot. O, cc. 371r-374r; edito in Catholic Church and modern science, 2009, pp. 2227-2232), giudicata però insufficiente. Il 23 marzo 1593 rinnovò la richiesta di poter ‘acconciare’ l’opera; quel che ottenne fu una seconda e più benevola censura, redatta dal gesuita Benedetto Giustiniani, alla quale rispose con le Locorum quorundam, in nova sua philosophia obscuriorum declarationes (Congregazione per la dottrina della fede, Index, Prot. M, cc. 115r-124r; edito in Catholic Church and modern science, 2009, pp. 2245-2259), di cui sono note quattro diverse redazioni, segno del tenace impegno per evitare la ‘perpetua infamia’. L’11 giugno 1594 il cardinale Francisco Toledo espresse però il definitivo parere negativo e, nonostante la dichiarata sottomissione, la Congregazione decretò il 2 luglio la proibizione omnino della Nova de universis philosophia, poi mitigata nell’Indice del 1596 dalla formula donec corrigetur.
La condanna colpì anche Mammarelli, che fuggì da Ferrara non prima di avere ceduto le copie giacenti in bottega al veneziano Roberto Meietti, che non esitò a metterle in circolazione, prive delle originarie lettere dedicatorie e con frontespizio datato al 1593, anteriore quindi alla proibizione. La vicenda impedì a Patrizi di terminare la redazione delle altri parti dell’opera; conservata nel Vaticano Barb. gr. 180 è l’incompleta Humana philosophia, redatta tra l’8 dicembre 1591 e il 15 gennaio 1592. Alla stesura, invece, di una edizione emendata lavorò negli anni successivi alla condanna, come testimoniano il ms. Palatino 1028 della Biblioteca nazionale di Firenze e il Palatino 665 della Biblioteca Palatina di Parma.
Pur amareggiato e sconfitto, nel 1594 Patrizi diede alle stampe la prima parte della sua ultima opera, i Paralleli militari (Roma, L. Zanetti), esito della lunga riflessione – avviata fin dalla Città felice – sulla crisi militare e politica dell’Italia, intessuta, come la Militia del 1583, di erudizione, gusto antiquario ed echi machiavelliani. I fascicoli via via stampati furono inviati a uomini d’arme quali Ferdinando Gonzaga, Francesco Maria II Della Rovere e il duca di Ferrara, sottolineando così il ruolo del filosofo quale guida del principe anche «ne’ fatti della guerra» e la necessità di dotare la scienza militare di rigorosi principi teorici. La redazione della seconda parte, apparsa nel 1595, lo impegnò al punto di declinare l’invito di Valori di redigere una biografia di Ficino. Malgrado avesse risposto il 25 marzo 1595 che sul filosofo neoplatonico «a Fiorenza se ne dovesse sapere più assai che in altro luogo» (Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 114), la proposta fu rinnovata nella primavera del 1596, a conferma di come a Firenze Patrizi fosse considerato l’autentico erede dell’insegnamento ficiniano.
Patrizi morì a Roma il 6 febbraio 1597 e fu sepolto nella chiesa di S. Onofrio, al Gianicolo.
La notizia della morte raggiunse subito Ferrara e il duca espresse sincero cordoglio. Nel 1600, quel che rimaneva della sua biblioteca fu venduto dal nipote Francesco a Federico Borromeo – destinatario, nel 1590, del breve scritto Dell’ordine de’ libri di Platone (in Lettere ed opuscoli inediti, 1975, pp. 175-188) e dedicatario della Mystica Aegyptiorum et Caldaeorum philosophia in appendice alla Nova de universis philosophia – e confluì nella Biblioteca Ambrosiana di Milano.
In edizione moderne sono a disposizione: L’amorosa filosofia, a cura di J.C. Nelson, Firenze 1963; Lettere ed opuscoli inediti, a cura di D. Aguzzi Barbagli, Firenze 1975; L. Bolzoni, Il Badoaro di F. P. e l’Accademia veneziana della Fama, in Giornale storico della letteratura italiana, CLVIII (1981), pp. 71-101; Nova de universis philosophia. Materiali per un’edizione emendata, a cura di A.L. Puliafito Bleuel, Firenze 1993.
Di Margherita Palumbo