Vittima di un’ingiustizia o assassino? Sulla vicenda di Enrico “Chico” Forti, condannato all’ergastolo con l’accusa di omicidio, anche negli Usa restano innocentisti e colpevolisti. Ron DeSantis, governatore della Florida, Stato dove venne commesso il delitto e dove è detenuto Forti, ha autorizzato in marzo il trasferimento in Italia a patto che l’uomo sconti l’ergastolo in carcere. L’accordo fu preso “nell’interesse nazionale a beneficio del rapporto tra Stati Uniti e Italia”. Anche l’ex segretario di Stato Mike Pompeo si disse a favore. Ma a patto che la condanna venga scontata. Perché in Usa continuano a essere convinti che non ci sia stato un errore giudiziario. La stessa polizia di Miami era contraria all’estradizione.
Nel giugno 2000 Forti, un producer televisivo ed ex campione di windsurf, venne condannato all’ergastolo per l’omicidio, avvenuto nel 1998, di Dale Pike, un australiano partito da Ibiza per andare a Miami, incontrare Forti e parlare di affari. Negli Stati Uniti pochi americani avevano sentito il suo nome, fino a quando nel 2019 era stato trasmesso dalla Cbs un lungo reportage, nel programma “48 Hours”, dedicato al caso. Il servizio sposava decisamente la linea dell’errore giudiziario, ma era costruito solo sulla base delle testimonianze a favore dell’italiano. Né gli investigatori, né la corte che emise la sentenza, né giornalisti locali che si occuparono del caso, sono stati sentiti, o hanno voluto parlare. Il fratello minore della vittima, Brad Pike, però, confessava la sua disillusione: “Non penso – diceva alla giornalista della Cbs Erin Moriartry – che conosceremo mai la verità”. Ciò che è appurato è che qualcuno aveva sparato alla testa di Dale Pike due volte con una calibro 22 e aveva lasciato il corpo, nudo, su un tratto isolato di spiaggia a Virginia Key, pochi minuti da Key Biscane.
Secondo gli americani, il killer o il mandante era stato Forti, per motivi di interesse, perché temeva saltasse un affare. Secondo gli italiani e chi in Usa difende l’italiano, il mandante sarebbe stato un truffatore tedesco, amico del padre della vittima. La storia della Cbs partiva dal luogo del ritrovamento del cadavere. “Quello – spiegava Sean Crowley, un ex capitano della polizia di New York – è un posto frequentato dai windsurfer”. Era il 16 febbraio del ’98, un lunedì, quando una persona trovò il corpo di Pike. “C’erano tracce di sangue – raccontò l’ex poliziotto – che portavano all’interno, verso la vegetazione”.
Crowley, che lavorava per Joe Tacopina, l’avvocato in Usa di Forti, era convinto che la scena fosse stata preparata in modo da avviare velocemente il riconoscimento dell’identità della vittima. Vicino c’erano un documento di viaggio con nome e cognome di Dale, una medaglietta con il nome di un hotel di Ibiza, e una carta telefonica dove era stata registrata la chiamata a un numero di telefono: corrispondeva a quello di Forti. “Come a dire alla polizia – aveva raccontato Tacopina alla Cbs – nel caso non sappiate chi ha commesso questo omicidio, è il ragazzo che è andato a prenderlo all’aeroporto e che la vittima aveva chiamato tre volte”. Il padre di Pike, Tony Pike, aveva firmato da poco tutti i documenti per vendere il suo hotel di Ibiza, il Pikes Hotel, a Forti. I fratelli pensavano che l’albergo valesse più del prezzo con cui era stato messo in vendita, 1,6 milioni. Era il posto che negli anni ’80 era stato scelto da George Michael e dagli Wham! per girare il celebre video “Club Tropicana” e quello frequentato da Freddy Mercury. Il padre dei fratelli aveva scoperto da un anno di essere malato di Aids, e di aver sofferto di demenza. Più tardi l’uomo avrebbe accusato Forti di aver approfittato del suo declino mentale per strappargli l’hotel a prezzo scontato.
Era stato durante un viaggio a Miami, che Pike aveva conosciuto Forti, un uomo diventato popolare dopo aver vinto a un quiz show in Italia e deciso a investire i soldi guadagnati. Dall’amicizia tra i due era nato l’affare. Forti, di origine trentina, all’epoca dei fatti aveva due figlie e la moglie Heather era incinta. Quando era arrivato l’anno dopo a Miami, Dale Pike aveva quasi mancato di incontrare Forti. L’italiano non voleva fare tardi, perché aveva promesso alla moglie che avrebbe accompagnato il suocero all’aeroporto di Fort Lauderdale, quarantacinque minuti a nord. Agli investigatori Forti aveva negato di aver incontrato Pike, ma dai tabulati delle telefonate fatte attraverso la rete internet dell’aeroporto, erano risultate tre telefonate tra i due. Forti aveva raccontato che durante il viaggio verso Miami, Dale aveva chiesto di fermarsi a uno store per prendere le sigarette e che lì aveva fatto una telefonata. Poi, tornato in macchina, l’australiano aveva chiesto a Forti se poteva accompagnarlo a Key Biscane. L’italiano aveva risposto di no, perché aveva l’appuntamento con il suocero. “No, no, no Key Biscayne – aveva risposto Dale – portami solo al ristorante Rusty Pelican”. Arrivato davanti al locale, Forti raccontò di aver visto Pike salire su una Lexus parcheggiata, a bordo della quale c’era qualcuno alla guida. Da quel momento i due si erano separati. Ventiquattr’ore dopo era stato ritrovato il corpo di Pike.
L’unico indizio portava a Forti. E a renderlo un sospetto fu una bugia: disse che non era andato a prendere l’australiano all’aeroporto, la stessa versione che aveva dato in una telefonata fatta alla moglie, irritata dal ritardo. Nell’intervista sulla Cbs, Forti aveva spiegato la sua scelta: “Quando ero arrivato dalla polizia, mi ero reso conto di essere considerato un sospetto. Ero confuso, pensavo che non ci fosse una logica nel modo in cui mi ero comportato quella sera”. Il giorno dopo l’ex producer era tornato dalla polizia e aveva detto di averci ripensato. E aveva raccontato la verità. Ma per gli investigatori era troppo tardi, perché il sospettato aveva parlato solo dopo che i detective gli avevano mostrato le prove dei suoi contatti con la vittima all’aeroporto. “Quella è una bugia – aveva raccontato alla Cbs – più grande di quella che avevo raccontato io”. L’italiano aveva raccontato tutta la storia, compreso l’affare dell’hotel.
In questa vicenda c’era anche Thomas Knott, l’amico del padre della vittima, un uomo con precedenti penali e sospettato di aver portato via soldi al proprietario dell’albergo. Quando la polizia era andata a casa di Knott per interrogarlo, l’uomo era svanito. Di lui vennero fuori i precedenti: era stato incriminato in passato di quattro reati legati alla frode e al furto di milioni di dollari. A tutti si era presentato come un tennista professionista. “Al cento per cento – raccontava Tacopina – non c’era alcun motivo per cui Forti volesse Dale Pike morto. Mentre ce n’erano per Knott”. L’amico del padre della vittima aveva utilizzato la carta di credito di Tony Pike e tutta la famiglia ne era a conoscenza. Quando la polizia alla fine era riuscita a individuarlo, Knott aveva accusato Forti dell’omicidio, sostenendo l’ipotesi che l’italiano fosse preoccupato dall’idea che il figlio di Pike potesse far saltare la vendita dell’hotel. Sia Knott sia Forti avevano un alibi: il primo aveva organizzato una festa la sera dell’omicidio, e Forti non avrebbe potuto uccidere Pike e poi fare in tempo ad accompagnare il suocero all’aeroporto. Ma per la polizia il secondo aveva motivi per eliminare l’australiano e farlo attraverso un sicario.
Nell’auto di Forti era stata trovata una piccola quantità di sabbia compatibile con quella dove era stato trovato il corpo dell’australiano. Ma l’italiano viveva nella zona, faceva windsurf e portava le figlie in spiaggia, perché non avrebbe dovuto avere sabbia in auto? Le conclusioni della Cbs erano state di grandi dubbi sulle conclusioni dell’inchiesta.
Sulla sentenza di condanna ha pesato anche un errore: non aver chiesto un’analisi di un patologo legale sul corpo della vittima, da parte della difesa. Quello scelto dall’accusa aveva indicato l’ora della morte tra le 6 di pomeriggio e le 7,16, il tempo in cui l’australiano era rimasto con Forti. “Quello – aveva raccontato Tacopina alla Cbs – era stato un errore enorme della difesa”. In più si aggiungeva un altro dettaglio: alle 7,16 Forti aveva chiamato la moglie, quando a quell’ora sarebbe dovuto andare a nord a prendere il suocero, ma una celle telefonica nell’area ha indicato che Forti stava andando in direzione opposta. I procuratori avevano concluso che l’italiano stesse allontanandosi dal luogo del delitto per crearsi un alibi. La condanna rappresentò una mazzata.
Se la storia è emersa, ricorda la Cbs, è grazie a una giornalista italiana, Manuela Moreno. Era il 2013. “Ero negli Stati Uniti – raccontava alla rete americana – ed ero in cerca di una grande storia. Cominciai a studiare il caso di Chico Forti e dissi, ‘questa è la mia storia’”. Durante un colloquio in carcere, era stata lei a indicargli Tacopina come avvocato. Sul perché la difesa non abbia mai appurato chi la vittima avesse chiamato, durante la sosta per le sigarette, non c’è traccia. La storia resta un lavoro giornalistico a metà, fatto solo di testimonianze favorevoli all’imputato, una scelta che aveva finito per indebolire la sua battaglia legale. Tra le altre testimonianze figurava quella di un italiano, Fabrizio Pandolfi, che aveva conosciuto Knott a Montecarlo e lo aveva sentito parlare di “cose gravi” che aveva fatto in passato ma di cui erano stati accusati “altri”. Knott, raccontò Pandolfi, aveva mimato il gesto della pistola e aggiunto: “Ho fatto cose per cui non ho pagato”. I procuratori non hanno mai voluto commentare la vicenda. (AGI)