Quando parliamo dei «modi in cui gli oggetti del mondo causano la stimolazione delle nostre terminazioni nervose, stiamo parlando dell’effettiva percezione [di questi oggetti]» (Searle 2005, p. 233) e del modo con cui questi “affettano” i nostri sensi: ogni modo in cui la propria percezione viene affettata dal mondo, implica l’esistenza di sé e del mondo (cfr. Spinoza, Etica).
“Percepire qualcosa” significa “cogliere come appare” e, chiaramente, non c’è modo di percepire come qualcosa appare senza percepire la sua apparenza (Searle 2005, p. 242: «Vedere l’apparenza di un oggetto significa proprio vedere in che modo l’oggetto si presenti. E non c’è modo di vedere come qualcosa si presenti senza vedere quel qualcosa»). Cosicché si percepisca del mondo solo il suo apparire, necessariamente null’altro. “Apparire” come particolare risultato dato dall’interazione fra (1) il soggetto dal suo punto di vista, (2) il valore dell’oggetto osservato e (3) l’ambiente di partecipazione.
Si può percepire solo ciò che ci appare e l’esperienza ci insegna che nessuna apparenza rimane affatto sempre tale, che tutto l’apparire scorre, come in un fiume eracliteo, e di più: l’apparire di uno stesso oggetto (es. bello), entro i limiti dell’oggetto, può accadere in modi tanto diversi quanto sono diversi i soggetti percipienti e gli ambienti spazio-temporali di partecipazione. Ritrovandoci con una variabilità dell’apparire che offusca ogni stabilità dell’esperienza, un velo sulla legge, l’ordine e la ragione di tale apparire. E questa è la natura dell’apparire: coprire! Infatti l’apparire, in quanto apparente, necessità di ciò da cui apparire, di un “in sé” da cui apparire: il coperto in sé è la ragione del mostrato apparire.
L’apparire non ha ragioni di per sé trovandole invece nell’in sé da cui appare. Quindi se qualcosa ha una ragione, quello è l’in sé, mentre se qualcosa è sensibile, quello è l’apparire. Orbene l’in sé per cui accade l’apparire delle cose è la ragione da cui ciò che appare appare: la ragione è l’in sé dell’apparire. Tale ragione in sé, per non apparire, deve essere e di fatto è sovrasensibile (al di là della percezione), eppur come “valore” deve essere di principio accessibile4. Si ha accesso all’in sé entrando nell’astratto sovrasensibile tramite lo strumento astratto della razionalità: la razionalità è lo strumento astratto capace, ma non necessariamente abile, di reificare linguisticamente la ragione astratta delle cose. Così che il linguaggio che ne segue sia un trasparire manifesto di quel in sé che non si manifesta.
L’intellegibile ragione copre il mondo razionale e irrazionale ossia è il motivo per cui qualcosa si può dire razionale o irrazionale. Ove la razionalità è la ragione cosciente, quella propria dei soggetti pensanti. Mentre la ragione è l’in sé di ogni cosa, sia essa razionale o irrazionale: ogni razionale e irrazionale sta sotto il dominio della ragione per cui è tale. Così il valore in sé della ragione copre casi di razionalità e irrazionalità e di più: comprende in sé ogni conoscenza possibile e impossibile di ogni valore possibile e impossibile. (cfr. Coerenza 2017)
La ragione è il medio di contatto fra razionalità conoscente e oggetto conosciuto, ciò che stando a costituzione in sé d’ogni cosa permette la conoscenza razionale delle stesse, l’uguale sostanza di tutto dove l’uguale conosce l’uguale. Ossia la ragione non è quella cosa propriamente umana, ma in sé di ogni cosa. Di umano noi abbiamo la razionalità e non la ragione delle cose, diversamente avremmo la verità di tutto. Ovverosia: la ragione in sé è il terzo di confronto (tertium comparationis) tramite cui si può dire che le narrazioni del soggetto razionalizzante corrispondono o meno alla realtà dell’oggetto narrato, come se la verità coincidesse con uno sguardo da fuori sulle cose benché quel fuori sia presente anche in me perché “me” come fuori di altro. Meglio detto: la ragione non si colloca fuori dall’universo per contemplarlo, la ragione è l’universo in sé che si autocontempla. Anche perché non si può contemplare qualcosa collocandosi fuori, se anche il fuori è qualcosa: si è sempre dentro a ciò che si contempla (Sini 2016, p. 179: «“mondo” e “uomo” non sono oggetti (né soggetti) di un sapere che li possa studiare e contemplare “da fuori”: il sapere può evidentemente farlo solo da dentro»). Talché l’abilità astratta di cogliere la ragione in sé delle cose, oh razionalità!, è la pretesa di parlare dell’universo come se lo guardassimo attraverso la sua universalità, da dentro i suoi occhi (tertium comparationis) validi per ogni cosa.
Qui dove, per quanto si possa separarsi dalle proprie parti, non si può certo uscire fuori di sé per essere sé. Ciò non esclude che si possa portare dentro di sé le cose, esperendole; entrando così in contatto dentro sé con la verità della cosa fuori di sé, la quale verità, domandata, ci viene regalata da questa o quella risposta. Onde arriva come strapiombo la teoria olografica5: e porteremo dentro noi l’universo se da un frammento suo ingerito lo sapremmo riprodurre tutto. Ben aggrappandoci alla teoria della terra sotto i piedi: del tutto bisogna averne principio per cercare la corretta regolazione su ogni cosa.
Di Vito J. Ceravolo fonte@ filosofiaenuovisentieri.com/