Festival di Sanremo. I conti in tasca al megaspettacolo


Per sedersi in platea, per le 5 serate, è occorso sborsare ben 1.290 euro, l’equivalente del mensile di un lavoratore medio con famiglia a carico,  mentre per starsene in galleria s’è pagato 672 euro

di Augusto Lucchese

Gli scorsi Festival sanremesi hanno già evidenziato e confermato a sufficienza che in Italia il comparto televisivo influenza parecchio la società civile.

Gli uomini di punta della rete pubblica (leggi RAI) o delle reti private, a diffusione nazionale o locale, dimostrano di essere come drogati dalla smania di esercitare un presunto potere comunicativo, magari avvalendosi dell’incontrollato sfruttamento della pubblicità.

È angosciante constatare quanto chi governa il Paese possa essere succube e impotente rispetto a chi tiene le redini del “quinto potere”, pur se trattasi di individui  palesemente prevaricatori,  privi di scrupoli e talvolta dilapidatori di consistenti risorse finanziarie, a maggior ragione se di provenienza pubblica.

Fatta questa premessa il discorso va subito al nocciolo della questione.

Dove è finita l’indimenticabile e indimenticata musica “italiana” degli anni 60/80? Forse nella pattumiera dei più recenti Festival?

La cronaca fa sapere che Luca Sofri, direttore del “Post”, ritenendo  di fare cosa utile nell’aggiornare la playlist  delle più belle canzoni delle precedenti edizioni di Sanremo, ha rinunciato al suo proponimento ed ha dichiarato: “Perdonatemi, ma niente che sia passato da Sanremo in questi ultimi otto anni entra in competizione con le canzoni della vecchia lista, che quindi resta immutata”.

Appare assurdo che la RAI, istituzionalmente designata a svolgere una funzione pubblica, non si renda conto degli effetti dirompenti di taluni suoi scadenti spettacoli, magari finanziati con assoluta prodigalità. È mai possibile che possa arrogarsi il diritto di operare in contrasto con le sane tradizioni del nostro Bel Paese (cui dovrebbe essere ossequiente più che le aziende “concorrenti”), quasi imponendo alla società nazionale le proprie unilaterali vedute (abbondantemente hippy ed esterofile) e costringendo chi di ragione in campo istituzionale a mettere una pezza sugli abusi e sulle deviazioni da essa perpetrati?

Ciò con il colposo tacito assenso dell’ormai emarginata “commissione parlamentare di controllo” che, derogando da un preciso dovere istituzionale oltre che da ogni razionale considerazione di etica sociale e morale, si arrampica sugli specchi nel mal riuscito tentativo di giustificare talune evidenti digressioni (e relativi inconcepibili sperperi) dell’Ente televisivo.

Occorrerebbe porre un freno alla nociva attività di taluni settori televisivi, specie se connessi con la elargizione di compensi stratosferici a manager, direttori, capi servizio, “presentatori da baraccone” insigniti della qualifica di “conduttore”.

Succose remunerazioni che rappresentano una chiara offesa al disagio economico di una vastissima fascia di cittadini che stentano a tirare avanti la carretta, che patiscono l’ansia del riuscire o meno a soddisfare le pur minime esigenze esistenziali, che si ritrovano quotidianamente esposti al pericolo di letali virus, che affrontano alla meno peggio il caro vita, gli esponenziali aumenti delle tariffe energetiche, la miriade d’indiscriminati balzelli diretti e indiretti.

Parliamo adesso, più da vicino, del “San Remo 2022”, la riedizione di quella pseudo rassegna televisiva musicale che ha perso di vista le sue originarie caratteristiche e che oggi appare, prevalentemente, come un contenitore di nebulosi business speculativi basati su faraoniche scenografie, su onerose “partecipazioni” di big o gruppi di facciata, su scialbe forzature pseudo comiche, su personaggi cui dovrebbe essere proibito, per decenza, apparire in pubblico. Ma chi controlla tutto ciò?  Nessuno, ovviamente.

Per il terzo anno consecutivo, forse in virtù della sua invidiabile appariscenza e della provata fotogenia, l’incarico di organizzare il tutto è stato confermato ad un certo semidio della TV a tutti noto come Amadeus, all’anagrafe Amedeo Umberto Rita Sebastiani. Nella sua improba faticaccia lo hanno affiancato Ornella Muti (attempatella, affascinante vamp cinematografica degli anni ‘70), Lorena Cesarini (coraggiosa ragazza italo-senegalese), Drusilla Foer (una poliedrica artista che dicono sia un uomo, Gianluca Gori),  Maria Chiara Giannetta (affermata giovane stella della cinematografia, capitano donna dei carabinieri nell’ultima serie di “Don Matteo”) e Sabrina Ferilli (riuscita, aggiornata riproduzione di Silvana Pampanini), tutte “star” che si sono susseguite, una per ogni serata, sul palco di San Remo.

Nel complesso, malgrado la dispendiosa immagine artificiosamente costruita attorno al “San Remo 2022”, non rimane che rimpiangere i parsimoniosi, dignitosi e apprezzabili tempi passati.

Qualcuno ha azzardato una giustificata perplessità: e se costoro, Amadeus compreso, avessero preso il Covid cosa sarebbe successo? Nessuna paura. Era stato ideato una sorta di “piano B”, perché gli italiani, per tutto l’oro del mondo, non possono essere privati di un avvenimento ludico freneticamente atteso per tutto l’anno. Esso, oltretutto, serve per accertare, attraverso l’audience, quale è la percentuale della gente che lo segue entusiasticamente, riuscendo così a misurarne l’eventuale mediocrità encefalica e culturale. In merito alla “audience” si parla di circa 11/milioni di teleascoltatori, più dell’anno scorso, pur se ci si guarda bene dall’ipotizzare e indicare età, classe sociale, schemi e abitudini di vita.

La citata presunta “mediocrità” non riguarda certo il sempre riemergente, pur se ripetitivo e ben poco originale, Fiorello (Rosario Tindaro Fiorello) che stavolta, con usuale immodestia, s’è attribuito la qualifica di “boster dell’intrattenimento”. Per giunta, utilizzando la sua inossidabile spiritosaggine a buon mercato, ha ritenuto doveroso informarci che Mattarella, a seguito dello scherzo da prete della sua riconferma, è stato costretto a dare forfait alla ambita partecipazione a un simposio canoro internazionale riservato a importanti ex personaggi. Ci ha fatto sapere, ancora, che Draghi, con malcelato rincrescimento, ha dovuto cestinare il discorso di insediamento “a banche unificate” al Quirinale. Per chiudere, esternando uno “scoop” degno di almeno quattro colonne di prima pagina, ha informato la vasta platea dei patiti del festival che il prossimo anno sarà l’impareggiabile Generale Figliuolo a rimpiazzare Amadeus nell’approntamento dei “piani operativi” del Festival aggiungendo che, in previsione di altre eventuali emergenze epidemiche, al posto dell’attuale Ariston sarà approntato un nuovo teatro che, all’uopo, potrebbe essere denominato Astrazeneca.   

Forse neppure un redivivo Padre Dante, sarebbe stato capace di superare in originalità il venerato showman da avanspettacolo di cui sopra.

La sua performance da 7 + è stata brillantemente integrata da tutta una serie di frizzanti, perspicaci battute e da artistici balletti in tandem con Amadeus.

Non poteva mancare, “in cauda venenum” (il veleno nella coda), la entrata in scena di un recidivo provocatore che, plagiando indecorosamente il compianto “Comandante Lauro” – in illo tempore popolare e benvoluto sindaco di Napoli – si fa arbitrariamente chiamare Achille Lauro, pur se i suoi dati anagrafici dicono che si chiama De Marinis.  Colposamente e forse studiatamente gli è stato consentito di presentarsi sul palcoscenico addobbato in maniera parecchio indegna, a torso nudo.  Ha superato, come da copione, ogni limite di decenza esibendosi in uno sketch del tutto volgare e manifestamente blasfemo.

San Remo 2022, secondo le notizie circolanti, è stato accreditato di un plafond di spesa di circa 17,3 milioni di euro, in aggiunta al canone da versare al Comune di Sanremo per 4 milioni 850 mila euro.

Amadeus, come già avvenuto per le precedenti due edizioni e alla faccia dell’imperante Coronavisus che, oltre a mietere vittime, provoca tante sofferenze e tanta miseria, riceverà un compenso di circa 600mila euro. Le cinque prescelte co-conduttrici (?), Ornella Muti, Drusilla Foer, Sabrina Ferilli, Maria Chiara Giannetta e Lorena Cesarini incasseranno, per una sola serata, circa 25mila euro ciascuna.

Una sorta di segreto di stato è stato posto in campo da mamma RAI circa i sempre più onerosi compensi da elargire agli ospiti, ma sembra che Checco Zalone (incompreso comico di serie “C”), Fiorello (pur se solo per una serata), Cesare Cremonini (Lunapop) e Laura Pausini dovrebbero incassare un compenso di circa 50mila euro ciascuno.

I Maneskin, guidati da Damiano David – che si sono esibiti nel corso della prima serata – hanno avuto assegnato un cachet di circa 80mila euro.

Per gli altri cantanti in gara è previsto un “rimborso spese” di circa 48mila euro. Aggiungasi i compensi contrattuali da versare ai componenti delle varie orchestre, agli sceneggiatori, arredatori, tecnici del suono e delle luci, oltre al nutrito esercito di personale vario, e diviene chiaro ed evidente il massiccio onere a carico della RAI che invita un po’ tutti ad accomodarsi alla cassa-madre, in buona parte alimentata con i soldi del truffaldino canone.

Denaro buttato al vento che serve solo ad alimentare la frenesia festaiola di una ben definita massa di spettatori sconclusionati, insensibili alle sofferenze di milioni di altri cittadini.

A fronte di una tale emorragia di euro, la RAI spera di recuperare un bel po’ di soldini attraverso la pubblicità. Nella misura in cui si augura che l’indice di ascolto sia ben superiore a quello dell’anno scorso, ha deciso un aumento del 15% delle tariffe. Le telepromozioni da 45 a 60 secondi sono costati circa 406mila euro a serata, mentre il canone per un semplice flash è stato di 27mila euro.

Il tutto in barba alla direttiva europea che limita “gli affollamenti pubblicitari”. Per cercare di acquisire più spazio, la Rai ha escluso la normale pubblicità nelle ore precedenti l’inizio dello spettacolo.

Sino a quando si dovrà assistere a simili poco confacenti comportamenti?

Come sponsor ufficiale del Festival, al posto dell’asfittica TIM – colpita da covid finanziario – ci sarà quest’anno l’ E.N.I. (Ente Nazionale Idrocarburi), carrozzone a vocazione energetica proveniente dalla galassia ex IMI, abilitato a spremere soldi sia allo Stato che ai clienti. Non si sa a quanto ammonta il suo “contributo festaiolo” stante che, anche in questo campo, vige il massimo riserbo. In fin dei conti pagano sempre i tartassati utenti.

In dispregio delle regole altrove imposte dalla pandemia, nel Teatro Ariston è tornato il pubblico al gran completo, mascherine o non, green pass o non. I biglietti d’ingresso, malgrado il costo stellare degli stessi, sono andati a ruba fra i ricconi di turno. Più che il green pass, si dovrebbe chiedere a costoro l’esibizione della denuncia dei redditi e un certificato di regolarità fiscale.

Si pensi che per sedersi in platea, per le 5 serate, è occorso sborsare ben 1.290 euro (equivalente del mensile di un lavoratore medio con famiglia a carico),  mentre per starsene in galleria s’è pagato 672 euro.

È penoso, infine, doversi sorbire le inqualificabili sceneggiate imbastite sui canali RAI per incentivare l’audience del Festival, come se si trattasse di un avvenimento di livello extra terrestre, alla stregua di un ipotetico primo sbarco su Marte. In onore dello strombazzato avvenimento musicale, sono andati e vanno sistematicamente in onda demenziali “servizi”. Uno degli spazi in cui tali barbosi servizi hanno trovato degna ospitalità è lo stantio programma “Uno mattina”, condotto da Marco Frittella e Monica Giandotti. Una  vera e propria agonia.

A fronte di una blanda dose di masochismo e decidendo di non chiedere aiuto al telecomando per oscurarla, non è male imporre al cervello di attenzionare l’inqualificabile trasmissione. Solo così è possibile rendersi conto di quale elevato grado di scoraggiante balordaggine aleggia nell’ambito della TV di Stato. Per quanto concerne parecchi dei suoi stereotipati vassalli perditempo, nella misura in cui deliziano sconvenientemente gli inermi utenti, non è poi tanto azzardato definirli, sotto taluni aspetti, autentici endoparassiti. Con l’aggravante che alcuni sconci programmi messi in rete sono tutt’altro che antropici e denotano un alto livello di falsità e di impostura, specie quando, sfacciatamente, vengono spacciati per “intrattenimento culturale” o “informativo”. Una pioggia di preconfezionate scene, scenette, interviste, accompagnati da encomiastici panegirici a rauchi, scialbi e insignificanti cantanti o a più o meno noti o famosi personaggi riempitivi.

Sarebbe stato più realistico e dignitoso evitare la 72° edizione dello stantio calderone della canzone in genere noto come “festival di Sanremo”.

Se tale avvenimento è ritenuto un modo come un altro per lenire i magri profitti, dovuti alla citata pandemia, piovuta addosso anche agli operatori dello spettacolo, diviene ben facile pensare che i vertici RAI “sono fuori di testa”, come urlano a squarciagola i falsi miti denominati  Maneskin.

Si potrebbe fare beneficenza anche senza approntare insulse sceneggiate o discutibili e anacronistici spettacoli. A prescindere dalla grave responsabilità di indurre larghe fasce di giovani e non giovani a perdere di vista la gravità del momento a non rispettare le regole anti movida e anti virus. Salvo poi a martoriare la gente con ferali notizie giornaliere.

Il discorso, alla fine, non riguarda solo la RAI ma è riferibile – con taluni aggravanti di carattere speculativo, affaristico o di potere – ad altre reti televisive invasivamente operanti su tutto il territorio nazionale.

“Ragionateci un po’ sopra”… direbbe il simpatico Governatore del Veneto, Luca Zaia.

Il Festival 2022 è finito, ma ne sentiremo parlare ancora a lungo. Poi un riposante lungo silenzio, almeno sino al prossimo anno.