Festa di libertà, festa di tutti


di Antonello Longo
direttore@quotidianocontribuenti.com

Per il 25 aprile il Quotidiano dei Contribuenti dedica un’edizione speciale – se così si può dire per un giornale online – alla Festa della Liberazione.
Il 25 aprile non è una ricorrenza di parte, ma la celebrazione della libertà ritrovata dalla Patria di tutte e tutti gli italiani.
Il nostro Gianni De Iuliis scrive (qui accanto potete leggerne il bellissimo articolo, “La storia siamo noi”), citando De Gregori, che «la storia entra dentro le stanze e le brucia / la storia dà torto e dà ragione» grazie al sangue dei vincitori e dei vinti. Ed è proprio così.
La radice vera della Resistenza va cercata nel desiderio di un popolo di fare cessare per sempre la violenza della guerra, dopo la disillusione dell’8 settembre. L’armistizio sembrava l’inizio della pace, ma la guerra continuò, divenne feroce. E la Resistenza nacque, prima di tutto, perché la guerra finisse. Le armi in pugno per affermare il diritto di vivere in pace, per sostenere i valori di civiltà e di umanità, contro la mitologia del sangue e della forza brutale.
C’è un episodio narrato da Giorgio Bocca, giornalista e partigiano, che vale la pena di ricordare. È quello della madre di Matera che ha i figli lontani, sotto le armi. Un soldato tedesco in fuga viene colpito, cade morto davanti alla sua casa. E la povera madre esce e ricopre con un lenzuolo il corpo del caduto: “Povero infelice, era anche lui un figlio di mamma. Ma perché tutto questo?”
Tutti figli di mamma, certo, così come tutti i caduti sono uniti nella pietà. Ma non per questo si può fare confusione tra le parti.
Se complesso e diversificato fu il fenomeno della Resistenza, anche dall’altra parte, quella fascista dei “repubblichini” di Salò, si agitarono aspirazioni e condizioni umane tra loro differenti. I nostalgici dello squadrismo delinquenziale colsero nella subordinazione ai nazisti l’opportunità di abbandonarsi a nuove, più atroci violenze. Altri seguirono il fantoccio del dittatore e i suoi gerarchi per incapacità di tagliare i ponti col passato, con il mito, – la narrazione, come oggi si direbbe – di “ordine” e “legalità” coltivato nel ventennio.
Costoro, per aver malinteso i concetti di “onore” e di “fedeltà”, vissero l’8 settembre come un tradimento e pensarono non fosse giusto venire meno all’alleanza con i tedeschi stipulata dallo Stato mussoliniano. Ma anche tra questi c’erano i fanatici, convinti della vittoria finale della Germania e i rassegnati, decisi a seguire un destino fatale.
Ma io credo che la maggioranza fosse costituita da quelli che Giorgio Amendola chiamò “i disperati che non credevano più a nulla, e che volevano soprattutto vendicarsi del fallimento della loro vita, finché ne avevano la possibilità”.
Furono tanti, infine, gli arruolati a forza nelle formazioni repubblichine, sotto minaccia di ritorsioni sulle famiglie, di deportazione in Germania.
Quella dei partigiani, invece, fu sempre una scelta libera, individuale. Scelta che presupponeva un giudizio morale sulla guerra fascista ma, nelle caotiche giornate seguite all’8 settembre, anche sul cinico doppiogiochismo della monarchia e di Badoglio. Una scelta che presupponeva un’aspirazione alla libertà e, nelle sue varie articolazioni ideologiche e posizioni politiche, ad un avvenire di democrazia, di rinnovamento, di rinascita della Patria dilaniata e vilipesa.
Oggi, settantasei anni dopo la fine della guerra, di fronte a cascami nostalgici e vani revisionismi della storia, va rimarcato il carattere nazionale della guerra di liberazione contro l’occupazione nazista, carattere che impose una politica di larga unione di tutte le forze della nazione contro l’invasore.
Ed al carattere nazionale si affianca il carattere popolare della Resistenza, che potè vivere e andare avanti fino alla liberazione del Paese grazie al cordone ombelicale che la legò alla generosità del popolo. La resistenza armata fu propria di una minoranza, soltanto nella primavera del 1945 diventò insurrezione di popolo. Ma dall’autunno del 1943 e per tutto il ‘44 in molti momenti la Resistenza fu “guerra di casa”, dove i partigiani erano “i nostri”, i tedeschi gli invasori crudeli e spietati e i fascisti i prepotenti, gli aguzzini, i corruttori. La maggioranza delle popolazioni, pur in modo indiretto ed entro certi limiti, non fu affatto neutrale e favorì la formazione del movimento partigiano.
Il Risorgimento italiano, cui spesso la Resistenza viene paragonata, fu sempre un movimento elitario, fatto da intellettuali, borghesi, piccole avanguardie operaie, ma non riuscì mai a provocare un incontro organico con le masse popolari, quella spinta dal basso che invece fu propria della Resistenza.
Ci fu nella Resistenza, specie dopo la liberazione di Roma, un aspetto di riconoscimento, di ossequio formale, per il governo nominato dal monarca, per cui la Resistenza si è potuta anche interpretare non come frattura ma come continuità legale e ideale col vecchio Stato. Ma non c’è dubbio che la lotta partigiana fu animata dal dibattito sul modo di ricostruire il Paese distrutto dalla guerra, di dargli nuovi ordinamenti liberi e democratici, rispondenti agli ideali delle forze che furono protagoniste della lotta contro il nazifascismo.
La Resistenza non produsse un programma unitario per la nuova Italia, in essa erano confluite componenti politiche diverse, ciascuna con i propri orientamenti. Comunisti e socialisti vedevano nella lotta al fascismo la premessa per una rivoluzione di classe, per creare uno Stato socialista. Altre forze, pur aspirando ad un rinnovamento sia morale che sociale, non si riconoscevano nel modello socialista.
È difficile dire, dunque, se gli ideali della Resistenza siano stati traditi o, in qualche misura, realizzati nei decenni successivi.
Ciò che è certo è che nella Resistenza, nella lotta antifascista, risiedono le basi della svolta repubblicana e della Costituzione. Non è possibile identificare la liberazione del Paese con un ritorno alle istituzioni prefasciste. La Resistenza, cito ancora Bocca, è stata “la sanguinosa gestazione di un’Italia diversa”.
E nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza classi sociali da sempre estranee, spettatrici se non vittime dei grandi eventi storici hanno conquistato un ruolo da protagoniste.
Malgrado tutti i condizionamenti provenienti dalla diversità di orientamento politico, dalla chiesa cattolica e, soprattutto, dalla presenza in funzione di liberatori delle forze militari anglo-americane e dal quadro di politica internazionale, la guerra partigiana non si può ridurre ad un semplice e marginale ruolo di supporto all’azione militare degli eserciti alleati.
Decisivo poi, per le sorti future, è che la funzione di governo assunta dai Comitati di Liberazione Nazionale sia riuscita ad evitare, anche nella fase cruciale successiva alla liberazione, la rottura immediata del fronte antifascista e, quindi, delle forze democratiche del Paese.

È questo complesso di considerazioni che fa della Resistenza l’atto fondativo del nuovo Stato italiano, che fa del CLN il punto di partenza di tutta la politica del dopoguerra, sino alla scelta popolare per la Repubblica ed all’Assemblea Costituente.