Sette femminicidi (donne uccise per mano di uomini, nella stragrande maggioranza loro partners) negli ultimi dieci giorni, ottantatre dall’inizio dell’anno. Il 2021, così come il precedente anno della pandemia, ha visto aumentare i casi di violenza sulle donne, che culminano con un assassinio, probabilmente anche per le condizioni socio-economiche mutate, ma non solo
di Anna La Mattina
Non è possibile immaginare una realtà come questa in Italia: sette femminicidi (donne uccise per mano di uomini, nella stragrande maggioranza loro partners) negli ultimi dieci giorni, ottantatre dall’inizio dell’anno. Il 2021, così come il precedente anno della pandemia, ha visto aumentare i casi di violenza sulle donne, che culminano con un assassinio, probabilmente anche per le condizioni socio-economiche mutate, ma non solo.
Sicuramente la convivenza forzata può favorire e far precipitare situazioni di intolleranza nelle relazioni familiari, così come le precarie condizioni economiche possono senz’altro esasperare gli animi. Tuttavia si avverte che qualcosa è sfuggita di mano e che probabilmente ha a che fare con un profondo cambiamento nella cultura, nei valori e, di conseguenza, nei comportamenti delle persone.
Ma perché a compiere tali delitti sono soprattutto gli uomini, che spesso non risparmiano neanche i figli? Probabilmente perché è saltato il patto tra i due sessi e i loro ruoli; ma anche l’emancipazione della donna ha posto una sfida alla società e al proprio compagno, che questi non è ancora oggi pronto ad accogliere, per migliorare a sua volta la sua esistenza. Credo che questo nodo-chiave non sia ancora stato compreso dall’uomo, tranne alcune eccezioni.
Vi sono altre ipotesi che prendono piede nelle coscienze di tutti noi: una società permissiva, che non dice più No, per paura di ferire o ledere il bambino, il ragazzo, ha generato mostri: gente assolutamente incapace di riconoscere i propri limiti, uomini con deliri di onnipotenza, che non possono assolutamente accettare un rifiuto da parte di una donna; oppure non si accetta l’idea che un rapporto possa finire e che sia proprio la donna, la sua compagna, oggetto del suo egoismo ed egocentrismo, a saper riconoscere per prima, quando è il caso mettere un punto, per cambiare strada, per dare anche una nuova opportunità alla relazione.
Il rifiuto viene vissuto come qualcosa di definitivo, di assoluto…come una via senza ritorno..e allora scatta la molla omicida, frutto di un malessere atavico, che affonda le radici nella profondità degli abissi di personalità che sicuramente meriterebbero di essere indagate per tempo, perché i segni premonitori, secondo me, ci sono. Ma perché allora nessuno riesce a decodificarli prima?
Che lavoro svolgono i servizi sociali del territorio e delle ASP? Le figure sono a disposizione dell’utenza: assistenti sociali, psicologi, forse anche pedagogisti. Ma perché allora non intervengono, prima che sia troppo tardi?
Non se ne può più: è da decenni ormai che se ne parla, abbiamo creato anche un giorno all’anno, il 25 novembre, per commemorare le vittime di femminicidio e farne proposito per cercare di sconfiggere il fenomeno, anche e soprattutto con la prevenzione nelle scuole di ogni ordine e grado.
Il termine “femminicidio” entra in uso per la prima volta nel 1992. Il femminicidio, dall’inglese femicide, è un termine criminologico introdotto dalla criminologa femminista Diana H. Russell, all’interno di un articolo del 1992, per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini per il fatto di essere donne.
È interessante vedere come il vocabolario Treccani definisce il neologismo “Femminicidio”: “Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale”, per sottolineare il fatto che la violenza non è soltanto fisica, ma tutto ciò che annienta una donna, nel suo essere più concreto e sostanziale è un atto violento, che produce anche l’uccisione morale e intrapsichica della persona di sesso femminile… Infatti la Treccami prosegue: “Le donne non possono lavorare, andare a scuola, frequentare i bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, viaggiare se non accompagnate da un maschio adulto della loro famiglia, calzare sandali che emettano suoni, essere assistite da un medico durante il parto… il femminicidio, come l’infanticidio (che spesso purtroppo accompagna il primo delitto) colpiscono i più deboli… Un termine forte ma che rende l’idea: «femminicidio». È l’olocausto patito dalle donne che subiscono violenza: da Nord a Sud, per aggressioni domestiche o fuori di casa, per casi meno eclatanti o finendo all’ospedale quando non al cimitero. Per mano di famigliari, compagni, congiunti, per lo più”.
L’emergenza femminicidi non è solo italiana. Nel 2019 in Europa sono state uccise 1.421 donne, una media di quattro al giorno, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 nel nostro Paese. Ma la prospettiva cambia se si prende in considerazione il numero di abitanti: le donne vittime di omicidi volontari sono 4,06 ogni 100 mila abitanti in Lettonia, 2,23 a Cipro, 1,59 in Montenegro, 1,47 in Lituania, 1,24 a Malta, 1,07 in Finlandia, 0,93 in Danimarca, 0,91 in Albania, 0,89 in Bulgaria e in Austria. Gli ultimi dati ufficiali contenuti nei database di Eurostat, aggiornati a due anni fa, confermano un trend emerso negli ultimi anni: i tassi di omicidi femminili più elevati si registrano nei Paesi dell’Europa orientale e meridionale.
Di femminicidi in Ue se ne verificano uno ogni 6 ore, di cui la Lettonia ha la “maglia nera”.
Nella tragica classifica, dall’undicesimo posto in poi si trovano Estonia (0,86 donne uccise ogni 100 mila abitanti), Francia (0,82), Serbia (0,81), Repubblica Ceca (0,71%), Romania (0,72), Croazia (0,67), Germania (0,66), Slovacchia (0,65), Ungheria (0,61), Norvegia (0,61), Svizzera (0,60), Spagna (0,53), Svezia (0,49), Olanda (0,48), Polonia (0,41) e Slovenia (0,38). L’Italia, sempre nel 2019, scende a 0,36 donne uccise ogni 100 mila abitanti (da 0,45 dell’anno precedente), seguita solo da Grecia (0,34) e Irlanda (0,32). I numeri assoluti sono impressionanti. Nel 2019 – Francia, Germania, Spagna e Italia a parte – le donne uccise sono state 80 in Polonia, 71 in Romania, 42 in Lettonia, 42 in Olanda, 40 in Austria, 39 nella Repubblica Ceca, 32 in Bulgaria, 31 in Ungheria, 30 in Finlandia, 29 in Serbia, 27 in Danimarca, 26 in Svizzera, 25 in Svezia, 22 in Lituania, 19 in Grecia, 18 in Slovacchia, 16 in Norvegia, 14 in Croazia, 13 in Albania, 10 a Cipro, 10 in Bosnia-Erzegovina, 8 in Irlanda, 6 in Estonia, 5 in Montenegro, 4 in Slovenia, 3 a Malta e 3 nel Kosovo. Ma in un quadro tendenziale di calo degli omicidi volontari, fa riflettere che le vittime donne rappresentino più della metà delle vittime totali a Malta (80%, tre su cinque), a Cipro (il 66,6%), in Lettonia (62,7%), in Norvegia (57,1%), in Svizzera (56,5%) e in Austria (51,9%). A seguire, Ungheria (48,4%), Germania (44,3%), Croazia (42,4%), Danimarca (40,9%), Bulgaria (40,0%), Olanda (38,5%), Spagna (37,8%), Italia (35,3%), Finlandia (34,0%), Francia (33,1%), Serbia (32,2%), Polonia (31,6%) e Romania (29,0%). (dati diffusi dall’AGI).
Fermare tutto questo si può! Questione di vera volontà politica. Occorre riconquistare le piazze e scendere a manifestare, anche con i DPI e il distanziamento sociale, ma occorre farlo e subito. Le donne non possono più aspettare!