Evelyn Granville


 

 

Addio a Evelyn Granville: si è spenta a 99 anni la matematica che mandò in orbita John Glenn e guidò la riscossa dei neri nelle università americane

La Nasa la chiamò per rispondere alla sfida sovietica: «Posso dire che ho fatto capire alle persone che anche noi abbiamo un cervello»

 

Di ALBERTO SIMONI

 

Sono state le pubblicazioni di una ditta di pompe funebri a consentire al Washington Post di scoprire con quasi tre settimane di ritardo che il 27 giugno scorso nella sua casa di Silver Spring, in Maryland, è morta Evelyn Boyd Granville. Aveva 99 anni. A molti il nome dirà poco o nulla, ma se l’America è riuscita a tenere prima il passo e poi superare l’Unione sovietica nell’esplorazione spaziale dopo lo choc del lancio dello Sputnik nel 1957, lo deve a questa matematica che fece parte del Progetto Mercury che nel 1962 inviò l’astronauta John Glenn in orbita.

Eppure quella di Evelyn non è “solo” la storia di una straordinaria mente capace di calcolare traiettorie dell’orbita e scenari di allunaggio che hanno fatto avanzare l’esplorazione spaziale e spinto gli Usa a primeggiare; è la vicenda di come una giovane afroamericana, nata il primo maggio del 1924, cresciuta senza padre in un quartiere nero di Washington, poi finita a studiare a Nashville in una scuola per afroamericani e quindi a Yale, ha contribuito a spaccare il soffitto di cristallo nell’America degli anni Quaranta e a gettare il seme di una parità dei diritti che almeno, sulla carta, gli Stati Uniti hanno guadagnato.

Una volta nel corso di una conferenza fu chiesto a Evelyn quali fossero i suoi più straordinari successi. Il pubblico di aspiranti scienziati, matematici e studenti, probabilmente si attendeva qualche uscita su come riuscì a calcolare esattamente il percorso per riportare nell’atmosfera – senza mandarla in frantumi – la navicella di John Glenn. Un’immagine fra l’altro raccontata con un mix di drammaticità e di dolcezza nel film del 2016 Hidden Figures (“Il diritto di contare”) che narra la storia del gruppo di scienziate afroamericane dentro la Nasa, sempre un passo indietro, senza bagni dedicati, ma decisive. E vincenti.

Ebbene, davanti al pubblico di esperti, Evelyn spiazzò tutti: «Prima di tutto ho dimostrato che le donne capiscono di matematica». E aggiunse: «Essendo un’afroamericana, posso dice che ho fatto capire alle persone che anche noi abbiamo un cervello».

Evelyn fu la seconda nera a conseguire un dottorato in matematica nel 1944, un anno dopo Euphemia Lofton Haynes. Poi Yale (master nel 1946) e un dottorato sulle funzioni e la teoria delle equazioni. Nel 1950 la dottoressa Granville era già professore associato alla Fisk University, e nel 1956 il grande balzo grazie all’assunzione all’IBM. E qui venne assegnata a collaborare con la Nasa per il progetto Vanguardia sullo studio dei satelliti. «Dovevamo scrivere programmi per qualcosa che andasse in cielo che era grande come un pompelmo», disse al Scientific American nel 2014. Poi fu la volta del Mercury, quindi partecipò all’ambiziosa visione dell’Apollo.

Le aziende – ripeteva spesso Evelyn – erano alla disperata ricerca di talenti e risorse, ben presto avevano smesso di guardare alla razza e al genere. Serviva il successo, servivano progetti portati a termine indipendentemente da chi scriveva l’equazione, come oggi Silicon Valley include chiunque sappia elaborare e sviluppare un algoritmo per arrivare prima a conseguire il meglio dell’intelligenza artificiale.

Si è sposata due volte, con il reverendo Gamaniel Mansfield Collins la prima; la seconda con un agente immobiliare che aveva scelto poi una carriera diversa: allevatore di polli. Vendeva pure i pesci del laghetto della proprietà nel Texas orientale. «Mi ero convinta – raccontò la donna – che lasciare l’aria e la frenesia della metropoli di Los Angeles mi avrebbe fatto bene». Non aveva figli, il secondo marito morì nel 2008.

Dopo le imprese spaziali, la dottoressa Granville tornò a insegnare in diversi college americani, scrisse manuali per gli studenti e gli insegnanti, si occupò di scienza per tutta la vita e al Christian Science Monitor nel 2002 disse: «Grazie a Dio ai miei tempi questa parole che è stata coniata di recente, nerd, non esisteva».

L’etichetta le sarebbe stata appiccicata addosso con facilità, d’altronde la matematica era stata la sua vita, da giovane voleva studiare francese, al liceo però s’innamorò di combinazioni alfanumeriche. Solo due cose l’hanno distolta di tanto in tanto: i polli che allevava il marito e il sogno di andare nello spazio. «Se avessi saputo prima che la Nasa avrebbe investito su queste missioni, avrei fatto l’astronoma, non la matematica».

Ma la donna che ha riportato John Glenn sulla Terra, aveva un grande cruccio: la calcolatrice. L’avrebbe voluta bandire nei primi anni della carriera scolastica di ogni bambino. «Devono imparare a fare moltiplicazioni e divisioni con lunghi passaggi, solo il metodo classico aiuta i bambini a ragionare», diceva. Battaglia persa questa. E chissà se mentre nella Silicon Valley plotoni di nerd accarezzano algoritmi, qualcuno nei Board delle scuole pubbliche – guardando le statistiche più recenti che denunciando una crisi devastante nelle capacità di calcolo (e lettura) dei piccoli americani – si chiederà se seguire il suggerimento di quell’afroamericana che disegnava orbite e traiettorie con il gesso sulla lavagna. In fondo Evelyn ha mandato l’uomo in orbita e l’ha riportato a casa.

 

In copertina foto di La Stampa