EUROPA E TURCHIA TRA COOPERAZIONE E TENSIONI


Più che alle parole di Draghi o all’incidente diplomatico con Ankara, ciò che bisogna tenere in considerazione è il reale stato delle relazioni tra le parti e quanto intrecciati siano sul campo gli interessi di Ue e Turchia

di Antonino Gulisano

Dopo il Consiglio europeo di fine marzo, la visita di Charles Michel e Ursula von der Leyen ad Ankara il 6 aprile apre la strada a un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Turchia all’insegna di un rinnovato dialogo per rilanciare la cooperazione bilaterale dopo anni di forti tensioni.
Se un forte pragmatismo sembra improntare la ripresa del dialogo bilaterale, questo non avverrà a scapito del rispetto dei diritti fondamentali e dello stato di diritto, che nelle parole di von der Leyen rimangono per l’Ue aspetti cruciali della partnership bilaterale. È l’inizio di un percorso che si vedrà col tempo dove e quanto lontano potrà portare.
Ripensando al dibattito attorno ad una filosofia delle relazioni internazionali mi chiedo se dobbiamo rassegnarci a un regime di pura anarchia. Traggo lo spunto dal Libro di J. Rawls Il diritto dei popoli.
Il contenuto di un Diritto dei Popoli può essere sviluppato a partire da un’idea liberale di giustizia, simile (ma più generale) a quella che io chiamo “giustizia come equità”
Con “popoli”, Rawls intende «gli attori della Società dei Popoli, così come i cittadini sono gli attori della società nazionale”. I popoli hanno in comune tre caratteristiche: un comune sistema di governo; ciò che John Stuart Mill chiamava “affinità comuni”; e infine una natura morale. Nonostante si supponga che il Diritto dei Popoli faccia parte della politica estera liberale, Rawls allarga la sua trattazione anche a popoli non liberali: anche i “popoli accettabilmente gerarchici” possono prendere parte al Diritto dei Popoli, mentre ciò non può valere per gli Stati oppressi, fuori dalla legge o caratterizzati da un assolutismo benevolo.
Il contenuto delle tesi di Rawls diparte principalmente dalla “teoria ideale”, orientata a definire come i differenti popoli che siano giusti, o almeno accettabili, dovrebbero comportarsi per rispettarsi l’un l’altro. Rawls si riferisce a questa concezione ideale come ad una «utopia realistica»: realistica perché può esistere; utopia perché «unisce ragionevolezza e giustizia a condizioni che rendono possibile, per i cittadini, la realizzazione dei loro interessi fondamentali». Un’idea che si inserisce nel solco tracciato da Rousseau, secondo cui ogni tentativo di ricercare principi sicuri per il governo deve prendere «gli uomini come sono, e le leggi come possono essere». Il Diritto dei Popoli, dunque, vuole principalmente mostrare «come i cittadini e i popoli ragionevoli potrebbero vivere in pace in un mondo giusto».
Le questioni che si sollevano dalle condizioni fortemente non ideali del mondo reale (con la sua ingiustizia e i diffusi mali sociali) non possono essere ignorate, Rawls si dedica anche a discutere come un popolo “ben ordinato” (liberale o accettabile, secondo i sensi suddetti) dovrebbe comportarsi rispetto alle società oppresse o fuori dalla legge. Possiamo affermare che l’utopia realistica rawlsiana è qualcosa che ancora non esiste, ma che potrebbe esistere se fosse sufficientemente realistica: si tratta di un tentativo di bilanciare la realizzabilità di fatto del ruolo educativo delle istituzioni democratiche con un esito che sia idealmente desiderabile da un punto di vista normativo.
L’utopia realistica di Rawls è una prospettiva opposta rispetto all’approccio realista alle relazioni internazionali, posizione che considera le sfere extra-politiche (morale, giustizia, religione…) irrilevanti nelle decisioni, nei patti e nei trattati internazionali – tra i realisti prevale una visione conflittuale delle relazioni internazionali in cui le parti sono caratterizzate da una razionalità fortemente auto-interessata.
Se l’utopia realistica fosse in atto, si eliminerebbe ad esempio il problema della guerra, Rawls preferisce il termine “popoli” al termine “stati” per porre l’accento sulle caratteristiche peculiari delle popolazioni stesse, come il carattere morale e la natura giusta o decente dei loro regimi: lo stato è strumento o istituzione, ma il senso di giustizia, l’elemento collettivo risiede nei popoli. Popoli liberali: sono strutturati secondo le istanze liberal-democratiche e sono in grado di offrire equi termini di collaborazione ad altri popoli.
Popoli decenti: pur non avendo una struttura analoga a quella liberal-democratica, mantengono al proprio interno un qualche modello di consultazione (elezioni, o comunque diritto di scelta in generale), prevedono un sostanziale rispetto dei diritti umani e sono non aggressivi nei confronti degli altri popoli. La decenza è qui intesa come criterio empirico, piuttosto che derivante da un argomento teorico: Rawls fa l’immaginario esempio del popolo del Kazanistan, facendoci intuire un riferimento ai popoli emergenti che avviavano la democratizzazione dopo l’uscita dall’URSS, oppure ancora alle popolazioni islamiche dei vari “-stan”
La questione Turca e l’adesione all’Ue
L’Adesione della Turchia all’Unione europea è un obiettivo che si prefissò il governo turco fin dalla fine degli anni ottanta. La Turchia instaurò delle relazioni particolari dal 1963 quando la Comunità economica europea, predecessore dell’Unione europea, firmò il Trattato di associazione con lo stato turco chiamato Accordo di Ankara.
Dai primi anni cinquanta si sono susseguiti periodici ampliamenti dell’Unione che hanno fatto passare il numero dei suoi membri dagli iniziali 6 ai 28 del 2013 con la Turchia che ha manifestato il suo desiderio di farne parte fin dagli anni sessanta.
Con l’Accordo di Ankara del 1963 ed il suo protocollo addizionale del 1970 si sono fissati gli obiettivi fondamentali dell’associazione tra la comunità e la Turchia, il rinforzo delle relazioni commerciali ed economiche e l’instaurazione dell’Unione Doganale in tre fasi. Uno degli obiettivi principali dell’accordo è stato la liberalizzazione della circolazione dei lavoratori, che non si è potuto ancora realizzare in pieno per ragioni prettamente socio-economiche.
Dopo una decade di colloqui, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, a partire dal 2003, ha messo in atto diverse misure riformiste per portare lo stato turco dentro i parametri imposti dall’Unione Europea e far entrare la Turchia come membro a pieno titolo dell’Unione. Tra le riforme si segnalano l’abolizione della pena di morte e il progresso nel riconoscimento dei diritti della minoranza curda. Un altro punto nodale per l’avvicinamento della Turchia all’Unione Europea riguarda il genocidio degli armeni e dei cristiano assiri, in Turchia infatti non solo questi genocidi non vengono riconosciuti, ma tramite l’articolo 301 del codice penale turco si persegue chi pubblicamente ne parla come è accaduto anche nei confronti del premio Nobel Orhan Pamuk. Non ultimo la disdetta del Protocollo di Parigi sul diritto delle Donne.
Nel 2002 Il Presidente della Convenzione Europea Giscard d’Estaing rilevando le ancora forti differenze culturali, dichiara pubblicamente la sua decisa contrarietà all’entrata della Turchia nell’Ue, sostenendo che un suo eventuale ingresso segnerebbe la fine dell’Unione europea rendendo impraticabile una vera integrazione politica (la Turchia diverrebbe lo Stato più esteso e il secondo più popoloso dell’Unione), nella stessa circostanza Giscard d’Estaing fa inoltre notare come la Turchia non possa essere considerata un paese europeo avendo il 95% della propria popolazione e della superficie territoriale (oltre che la propria capitale) in un altro continente.
Come cambierà la relazione Italia-Turchia dopo che Draghi ha definito Erdogan un dittatore?
«Non è nell’interesse di Ankara alienarsi le relazioni con il nostro Paese o con l’Europa in una fase di rilancio del dialogo con Bruxelles», spiega Valeria Talbot dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.
«Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto». Sono queste le parole pronunciate in conferenza stampa dal premier Mario Draghi che hanno causato l’ultima crisi diplomatica tra Italia e Turchia.
L’esternazione del presidente del Consiglio ha subito creato scompiglio in quanto può compromettere non solo le relazioni tra l’Italia e Turchia, ma anche quella tra Ankara e Bruxelles in un momento in cui i rapporti tra le due parti sono già particolarmente tesi.
Il primo a condannare le parole di Draghi è stato il vicepresidente turco, Fuat Oktay, che su Twitter ha definito «sfrontate e scandalose» le affermazioni dirette «al nostro presidente che per tutta la sua vita ha fatto gli interessi del suo Paese e della sua nazione e ha vinto ogni elezione con grande fiducia da parte del popolo». A stretto giro è arrivata anche la reazione del Ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, che ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani e definito «populista e inaccettabile» quanto detto del «premier italiano nominato» (e non eletto, a differenza di Erdogan).
La questione della Turchia è poi particolarmente rilevante in quanto legata a dossier importanti per l’Unione, data la presenza turca nel vicinato europeo. «L’Europa si sta allontanando dalla Turchia e questo modo di gestire relazioni le impedisce di trovare un coordinamento costruttivo sui vari dossier, in primis quello libico. Ankara ha fatto la sua parte sconfiggendo il maresciallo Khalifa Haftar e ora si aspetta che l’Europa faccia la sua». Più che alle parole di Draghi o all’incidente diplomatico di Ankara, quindi, ciò che bisogna tenere in considerazione è il reale stato delle relazioni tra le parti e quanto intrecciati siano sul campo gli interessi di Ue e Turchia.
In conclusione
Sono concorde con le dichiarazione del Presidente del Consiglio Draghi e ripropongo il concetto di realpolitik superando la stessa teoria di J. Rawels: “L’utopia realistica di Rawls è una prospettiva opposta rispetto all’approccio realista alle relazioni internazionali, posizione che considera le sfere extra-politiche (morale, giustizia, religione…) irrilevanti nelle decisioni, nei patti e nei trattati internazionali – tra i realisti prevale una visione conflittuale delle relazioni internazionali in cui le parti sono caratterizzate da una razionalità fortemente auto-interessata”.