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La sua vita esprime una forte dedizione femminile ai bisogni sociali, coniugata a sensibilità e spiccate doti di pragmatismo organizzativo, che la porteranno a essere un’antesignana nella fondazione di opere missionarie e istituzioni dedicate specialmente ai problemi dell’emigrazione, del lavoro e alla tutela dei diritti.
Nasce a Bergamo il 16 gennaio del 1888, primogenita di sette figli, in una famiglia della borghesia imprenditoriale benestante. Il padre era infatti un produttore di bachi bianchi per l’industria tessile.
Nel 1890 la famiglia di Betty si trasferisce a Villa Ambiveri nel comune di Seriate, dove nascono le altre sorelle. Betty frequenta l’Istituto superiore delle suore Marcelline a Milano insieme alle sue quattro sorelle, dove riceve l’educazione riservata alle ragazze della ricca borghesia, improntata alle cure domestiche e alle buone maniere. Successivamente, finiti gli studi, si dedica alla vita familiare e organizza cene e ricevimenti alla villa, ma non è certamente questa la dimensione su cui intende fondare la sua esistenza. Insieme al padre, infatti, si impegna nell’attività di famiglia e segue dei corsi di specializzazione per la coltivazione dei bachi.
Con la Prima Guerra Mondiale si delinea l’impegno sociale di Betty, che dal 1915 presterà servizio alla Croce Rossa presso l’Ospedale territoriale della Clementina fino alla sua morte. Negli anni della guerra, oltre che alla cura dei malati e dei feriti, continua a dedicarsi alla gestione dell’azienda di famiglia, specializzandosi nelle tecniche agricole più innovative, che insegna ai mezzadri delle sue proprietà terriere. Attività imprenditoriale e impegno sociale diventano, dunque, i binari stabili della sua vita. Ogni mattina davanti alla sua villa si raccolgono diverse persone bisognose a cui la guerra rende più difficile l’esistenza. Problemi di salute, problemi economici e lavorativi: per ciascuno Betty cerca di trovare una soluzione concreta.
Alla fine della guerra decide di dedicarsi ad attività missionarie, fondando nel 1920 il Laboratorio Missionario e diventando presidentessa dell’Opera Apostolica delle Pontificie Opere Missionarie, ruolo che svolge con la consueta dedizione in nome di un concetto ampio di solidarietà.
Nel primo dopoguerra l’attività familiare si espande a Porto San Giorgio, nelle Marche, con un nuovo stabilimento. Negli anni successivi inizia, tuttavia, la crisi della bachicoltura dovuta a una serie di motivi congiunturali tra cui il nuovo corso dello sviluppo industriale, le continue variazioni dei prezzi, la carenza di capitali. Dopo la morte della madre nel 1933, decide in accordo col padre di chiudere l’impresa di famiglia. Betty si dedica ancora alle attività agricole rimaste e sviluppa l’attività di ascolto e di volontariato a Segrate accogliendo nel suo studio le persone bisognose. Riconosce anche nella sua azienda forme di sindacalizzazione delle operaie e favorisce percorsi di formazione professionale, in una prospettiva di valorizzazione e tutela del lavoro.
Durante il periodo fascista il suo impegno sociale aumenta e, collaborando con Don Vismara – commissario dell’Opera Bonomelli – offre assistenza a numerosi emigranti italiani che, ritornando in patria, erano rimasti privi di dimora e di lavoro. Assiste anche gli anziani e manda avanti la fondazione raccogliendo fondi per le missioni in Africa.
Nel 1940 ritorna a prestare servizio presso l’Ospedale della Clementina, protestando con lettere indignate alla segreteria del Duce per le inefficienti cure prestate ai malati di polmonite. Per via di queste lettere verrà sospesa per tre mesi dall’incarico.
Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio, dà vita insieme ad amiche e amici a una banda partigiana chiamata “Decò e Canetta” che collabora con le altre formazioni partigiane che operano sulle montagne, organizzando l’espatrio di numerose persone a rischio di arresto, nascondendo armi e divise per l’attività clandestina antifascista.
Per queste attività, il 24 novembre 1943 Betty viene arrestata con la pesante accusa di detenzione di armi. Viene condannata a morte, ma grazie alle petizioni della popolazione di Seriate e all’interessamento del cardinale Schuster e al vescovo di Bergamo monsignor Bernardini, le viene ridotta la pena a dieci anni. Una sua lettera dal carcere è particolarmente illuminante del carattere tenace che la contraddistingue quando, parafrasando Leonardo, ringrazia Dio “per questa nostra benigna natura umana che ci fa trovare ovunque di che imparare ed io aggiungo di che fare”.
Il 29 aprile 1945 gli americani liberano il carcere tedesco di Aichach dove Betty era detenuta. Qualche mese dopo, il 4 giugno del 1945, Betty ritorna a Seriate dove viene accolta con celebrazioni e festeggiamenti. Tornata a casa ricomincia a dedicarsi all’attività sociale ospitando nella sua villa varie associazioni tra cui le Missionarie Eucaristiche, il COM (Centro Orientamento Missionario), Azione cattolica e Russia cristiana. Nell’agosto del 1945 fonda anche la sezione bergamasca del CIF (Centro Italiano Femminile), a dimostrazione della sua particolare sensibilità per le tematiche inerenti alla condizione della donna.
Parallelamente estende il suo impegno anche all’attività politica e dal 1946 al 1956 viene eletta nel consiglio comunale di Bergamo per la durata di due mandati. È stata la prima donna a ricoprire questo incarico nel dopoguerra. Dal 1956 al 1960 viene eletta nelle liste della Democrazia Cristiana anche nel Consiglio Provinciale, nel quale dimostra il suo interessamento per le classi più svantaggiate.
Le sue richieste riguardano interventi contro l’alcolismo diffuso, contro gli incidenti sul lavoro, sollecita anche miglioramenti nel servizio trasporti per gli operai e sostiene l’opera O.M.N.I (Opera Nazionale Maternità Infanzia).
Betty Ambiveri conduce personalmente i suoi molteplici progetti fino alla morte, avvenuta il 23 dicembre 1962. Nonostante il tumore al seno diagnosticatole tre anni prima, malattia affrontata con coraggio e fiducia, dice:
Mai una donna deve sentirsi stanca, deve sempre lavorare, deve sempre lottare.
Dalle Lettere da Sant’Agata
La sua è certo una storia che merita di essere raccontata.