"Ecco come stiamo uscendo dal buio del long Covid"


(AGI) – “Ora parlo molto, mi deve perdonare, ma quando ho avuto il covid, mi salivano certi nervi! Volevo parlare ma non mi venivano le parole, mi bloccavo, come se avessi i pensieri annebbiati”. Nicoletta Genovese, imprenditrice, gestisce dei supermercati e di dipendenti ne ha poco meno di 60: è una dei 108 pazienti che cercano di “tornare alla vita”. Assistiti gratuitamente grazie alla Samot di Ragusa e al contributo del fondo di beneficenza di Intesa San Paolo nel progetto “Back to life”, erano precipitati nel Long Covid, subendo quello che in termini medici è definito “decondizionamento generale e muscolare in seguito a infezione da Sars Cov2”. “Non ero ancora vaccinata – racconta Nicoletta – era maggio dello scorso anno, quando si stava aprendo la finestra per le vaccinazioni della mia età, ho 55 anni. Ma sono stata contagiata: io, sette miei dipendenti e la mia famiglia. Non volevo andare in ospedale, sono nonna da poco. Sono stata ad un passo dalla terapia intensiva”.

Dopo essere stata contagiata da una dipendente, Nicoletta è stata a casa un primo periodo ma le sue condizioni dopo i primi dieci giorni di isolamento sono peggiorate sensibilmente, tanto che fu costretta al ricovero. “Ho riflettuto molto – dice – sulla vita e sul suo significato. Dei miei 58 giorni di ricovero all’ospedale di Marsala, sono rimaste le 13 persone che non ce l’hanno fatta e i valori che spesso dimentichiamo, ciò che abbiamo e non apprezziamo. La grande umanità del personale in ospedale. Avevo timore, non reagivo bene alle terapie: un passo avanti e tre indietro, e una infiammazione intestinale che mi ha fiaccata ulteriormente. Sono rimasta positiva fino a tre giorni prima delle dimissioni. E sono stata dimessa sulla sedia a rotelle. Muscoli fantasma, non avevo più forze“. Poi, l’incontro con il progetto della Samot: “C’è voluta tantissima volontà; con me una squadra con fisioterapista, assistente sociale e psicologo. Ce l’ho fatta”.

“Back to life” ha coinvolto tre province siciliane: a 14 persone a Ragusa, 83 a Trapani e 11 a Siracusa. Un approccio scientifico ha permesso di valutare le condizioni di partenza dell’intervento – definite con parametri riconosciuti a livello internazionale – e di conclusione dello stesso che porterà alla valutazione dei risultati, che potrebbero sfociare tra qualche mese a uno studio da mettere a disposizione della comunità scientifica per l’approccio alla problematica. La Samot da anni si occupa della somministrazione di cure – tra le quali appunto riabilitazione, fisioterapia, assistenza medica e psicologica – di malati con condizione terminale “avanzata, progressiva ed incurabile” per rendere le condizioni della vita, a domicilio, quanto migliori possibile.

“Uno dei nostri fisioterapisti, Davide La Terra, ha avuto un contatto con un care giver di un nostro assistito, che manifestava sintomi da long covid. Nella nostra attività – spiega la presidentessa di Samot, Daniela Di Noto che e’ anche psicologa -, si entra in empatia naturale anche con il nucleo familiare dei pazienti e questa persona ha chiesto dei consigli a Davide perché si sentiva spossato e non in grado nemmeno di affrontare incombenze della vita normale. Una telefonata con il medico responsabile Luigi Maiorana ed è nato il progetto perché abbiamo riscontrato che in realtà, avevano molte richieste di aiuto in tal senso”.

Dai dialoghi e dalle richieste di consigli emergono i sintomi comuni persistenti, in chi soprattutto ha affrontato la malattia in forma grave, nella maggior parte dei casi con ricoveri e permanenza in terapia intensiva o sub intensiva, stanchezza eccessiva, affaticamento facile, difficoltà nella respirazione, tutti sintomi che impattavano in modo invasivo nella gestione della vita quotidiana. Ma non sono mancati casi in cui i pazienti pesantemente colpiti da long covid siano stati positivi ma paucisintomatici o asintomatici.

“Abbiamo attivato un processo di formazione a 360 gradi – spiega Luigi Maiorana – in cui abbiamo coinvolto i medici di famiglia, le strutture pubbliche, i nostri operatori sul territorio per poter fornire l’assistenza che nel frattempo avevamo messo a punto: fisioterapia respiratoria e motoria, psicoterapia…e non abbiamo fornito servizi standard ma cuciti letteralmente sulle esigenze di ognuno a delle 108 persone che abbiamo assistito. Prima una valutazione multidisciplinare e poi l’erogazione dell’assistenza. Il taglio e’ stato quello della riabilitazione; ci siamo trovati nel ‘fare’, con l’obiettivo di ridare una qualità di vita, per quanto possibile, vicina o uguale a quella del pre Covid”.

Un sistema sanitario sotto pressione, con il personale ovviamente impegnato ad affrontare l’emergenza, la fase acuta della malattia, ha portato a un aggravamento organizzativo in tutte le strutture di cura. “Andando a lavorare a domicilio – racconta Davide La Terra – si andavano a rilevare le conseguenze che il Covid aveva lasciato fisicamente e mentalmente nei pazienti e i sintomi che vedevamo erano dispnea, affaticamento muscolare, spossatezza, cefalea, dolore toracico e anche isolamento sociale che in certi casi portava con sè anche la depressione. Potevamo fare qualcosa? Siamo sempre stati impegnati sul territorio per patologie il cui trattamento non poteva essere interrotto e quindi abbiamo pensato che qualcosa si poteva fare”.

Inizia quindi l’attività di ricerca di dati scientifici di approccio e trattamento del long covid, In realtà, abbastanza scarni nel periodo in cui viene elaborato l’intervento”in cui vengono coinvolti 59 operatori – spiega Stefano Martorana, che è coordinatore del progetto -, e di questi, 26 sono i fisioterapisti, 18 i medici e 15 gli psicologi.Vincenza Tranchina, 64 anni ancora ha qualche strascico, non parla al telefono ma affida a sua figlia Rossella il racconto del suo incubo. La signora Vincenza è stata travolta dal Covid con una polmonite interstiziale con embolie.

Un male subdolo perché asintomatica nel primo periodo. Era sotto controllo, curata per quella che appariva come una bronchite. Due tamponi negativi. Poi la polmonite, non aveva più fiato, la corsa in ospedale e mio padre che la deve lasciare sulla porta. – si commuove Rossella – Avevamo paura di non rivederla più”. Era gennaio, uscirà dall’ospedale dopo 60 giorni. Incapace di muoversi, allettata e con l’ossigeno ad aiutarla.

“E’stata una esperienza incredibile, terribile e umanamente bellissima. Tremenda per la paura che abbiamo avuto tutti, bellissima per le persone che abbiamo incontrato, dall’ospedale a casa. Non era vaccinata, non abbiamo fatto in tempo, il Covid è arrivato prima. Ginnastica e movimento: le hanno insegnato a respirare nuovamente, a riprendere il controllo della muscolatura, della sua vita. E anche l’assistenza psicologica è stata importante; la paura e qualche segnale di depressione, da superare. Fino a settembre l’accompagnava la bombola di ossigeno – conclude Rossella, figlia di Vincenza -. Ora un anticoagulante e terapie per la fibrosi, strascico di quanto avuto. Se devo essere sincera, si’, sapevamo di quanto brutto fosse il Covid ma non ci aspettavamo nulla di tutto quanto abbiamo passato”.

“Molte delle persone che abbiamo assistito, e che hanno attraversato l’esperienza della prima fase acuta della malattia – spiega Flavio Cirillo, fisioterapista – avevano non soltanto il bisogno di ritrovare il contatto con il mondo esterno ma anche l’abitudine del quotidiano perché la loro vita è cambiata non soltanto dal punto di vista fisico motorio, respiratorio, ma anche psicologico. Il primo impatto è stato quello della paura del ritorno a casa accompagnata dalla preoccupazione dettata dalle condizioni fisiche non più ottimali, di non riuscire a fare quello che facevano in precedenza. Per alcuni era arduo anche affrontare un’uscita per andare a fare la spesa, o salire una rampa di scale. Ci siamo trovati davanti a persone che oltre al danno fisico, non riuscivano a trovare la motivazione per andare avanti, sopravvissute ad un loro caro, degente nel letto accanto ma che non ce l’ha fatta. Una componente psicologica forte e un carico emotivo non da poco, anche per noi operatori”.

Anche Davide La Terra ricorda un paziente: “Ha visto un amico a cui era attaccato come ad un padre, morire nel letto accanto: smarrimento, dolore, paura di non farcela, di cadere nello stesso percorso, lontano da tutti e senza conforto, il terrore di non rivedere cari e famiglia”.

Source: agi