Dove va la scuola italiana?

Foto Luca Moggi/LaPresse11-01-2020 Firenze, ItaliaCronacaLa Toscana riapre alla didattica in presenza al 50% per le scuole superiori.Nela foto: il rientro degli studenti sui banchi di scuolaPhoto Luca Moggi/LaPresseJanuary 11, 2020 Florence, ItalyNewsToscana's high school students return to classroom


L’autonomia scolastica, motore trainante della scuola italiana moderna, doveva essere la modalità innovativa primaria per migliorare la scuola. Purtroppo, a vent’anni di distanza, essa si è rivelata con pochi punti di forza e con molti e gravi punti di debolezza. La scuola non è un’azienda e deve ritornare pubblica se vogliamo alzarne il livello qualitativo, pena lo scadimento della società tutta

di Anna La Mattina

Non voglio scrivere di nuove leggi e regolamenti che definiscono la scuola dell’Autonomia o della “Buona scuola” di Renzi, introdotta dalla legge 107/2015. Desidero mettere in evidenza gli aspetti che hanno contribuito a “svuotare” la scuola della sua “missione” e dei suoi più profondi contenuti: trasmettere la cultura alle nuove generazioni. In primo luogo la lingua, come mezzo di comunicazione privilegiato, per comprendere e per farsi comprendere. Poi tutto il resto, dalla Storia dell’Umanità, alla Geografia del Pianeta e dell’universo. E poi tutte le conoscenze che riguardano la Scienza, la Tecnica, le nuove tecnologie (che non significa saper smanettare con il telefonino, cosa che gli studenti sanno fare benissimo), per costruire mestieri, professioni antiche e d’avanguardia. Il compito della scuola è prendersi cura delle nuove generazioni ed aiutarle a divenire donne e uomini adulti, completi, capaci di rispettare le regole condivise, apprese in famiglia e a scuola, perché così facendo ci si prende cura della società di oggi e di domani.
Ma la scuola è cambiata, è inutile piangerci sopra: è cambiata radicalmente (come è cambiata la società), con l’entrata in vigore della cosiddetta “autonomia” scolastica. Il punto focale di questa trasformazione è la legge 59/1997 che ha rappresentato il fulcro per l’autonomia didattica e organizzativa. In virtù di tale legge le scuole possono differenziare e ampliare l’offerta formativa e dovrebbero anche essere (il condizionale è d’obbligo) sedi di ricerca, sperimentazione e sviluppo.
L’autonomia scolastica avrebbe dovuto diventare lo strumento per il raggiungimento di migliori livelli di successo formativo. Ma la sua applicazione non si è rivelata priva di pericoli, soprattutto perché molti aspetti sono stati sottoposti a urgenti pressioni politiche o a vuoti normativi, nonché ad una traduzione e applicazione demagogica delle migliori intenzioni democratiche.
L’autonomia scolastica, motore trainante della scuola italiana moderna, doveva essere la modalità innovativa primaria per migliorare la scuola. Purtroppo, a vent’anni di distanza, essa si è rivelata con pochi punti di forza e con molti e gravi punti di debolezza, facilmente rilevabili: chiunque oggi è in grado di notare la pochezza culturale della popolazione scolastica italiana: è evidente che non possiamo pensare che i nostri giovani siano tutti con un Q.I. (quoziente intellettivo) al disotto della media! Piuttosto vi sono tante concause, che concorrono a questo triste e preoccupante risultato. Mi chiedo se non sarebbe il caso di pensare se, forse, qualcosa non ha funzionato nell’impianto autonomistico e nei suoi novelli contenuti.
Particolare rilievo ha il fatto che, con le nuove regole sull’autonomia, i programmi scolastici hanno cessato di essere prescrittivi per essere sostituiti dalle Indicazioni nazionali DM 254/2012 che si limitano a fornire la “mappa” delle competenze, delle abilità e delle conoscenze (i tre livelli sono descritti con ordine d’importanza!), che lo studente deve raggiungere al termine di ciascun percorso formativo.
Una delle principali concezioni della nuova e buona scuola, è quella di mettere in evidenza, in ogni occasione formativa obbligatoria, il fatto che gli studenti debbano acquisire, per prima cosa, le “competenze”, poi le “abilità” e infine anche le conoscenze! La buona scuola pensa che lo studente sia portatore di un suo proprio bagaglio di conoscenze (senza alcun dubbio! Il problema è stabilire di cosa si tratta…), per cui gli insegnanti non devono più essere coloro che “lasciano il segno dentro”, come letteralmente suggerisce il termine “in-segnare”, “segnare dentro”, appunto. L’insegnate piuttosto dovrà essere un facilitatore, il più discreto possibile, perché il ragazzo è ben capace di fare tutto da solo: organizzarsi la ricerca, stabilire in che direzione lo porta la sua curiosità e così via. Chi più ne ha, più ne metta. Hanno tolto agli alunni i punti di riferimento, essenziali per crescere.
Tutti dettami della scuola moderna ed efficiente sono ben sintetizzati nella cosiddetta “Flipped classroom” ovvero “la classe capovolta”, nei ruoli, docente/ discente o meglio, tutor-attivatore di competenze/studenti. Spazi fisici adeguati (le classi appunto), che nella realtà di molti tra gli istituti italiani, specialmente nel Sud, vede classi in cui spesso non è possibile piantare neanche un chiodo per appendere un planisfero (pareti divisorie di plastica). Per non dire che esistono ancora scuole superiori senza LIM (lavagne interattive multimediali) nelle classi e con assenza totale di libri, quaderni e fogli, laddove alcuni genitori ammettono candidamente che compreranno i libri ai figli, per premio, solo se dimostreranno di voler studiare! Non dimentichiamo che sono diventati “clienti”, per cui hanno il coltello dalla parte del manico!
E cosa dire della formazione docenti? Gli insegnanti (perdonatemi il termine obsoleto) devono formarsi continuamente, per obbligo, affinché diventino più qualificati (io preferisco dire “indottrinati” dal catechismo della nuova Buona Scuola); naturalmente senza un corrispettivo economico che ne sottolinei l’avvenuto accrescimento professionale! Vale la pena ricordare che, mentre si parla di adeguare tutto alle regole dell’Unione Europea, gli stipendi degli insegnanti italiani, rimangono i più bassi d’Europa.
Ecco in cosa si concretizza l’autonomia: in una miriade di soluzioni possibili che altrettanti dirigenti scolastici sanno darsi come buone soluzioni, in coerenza con la loro idea di scuola. L’importante è che tutte le scuole abbiano un PTOF-piano triennale dell’offerta formativa; ma cosa esso contenga non interessa a nessuno. Per cui… la fantasia al potere!
Infatti, tra gli ambiti di innovazione previsti dal Regolamento dell’autonomia, DPR 275/99, rivestono particolare importanza quelli relativi alla facoltà concessa alle scuole di gestire, con ampi margini di autonomia, l’organizzazione, la didattica, il curricolo e l’offerta formativa: tutte cose meravigliose e sacrosante, ma rispetto a quali parametri e a quali obiettivi concreti verranno definiti e soprattutto con quali risultati, se non si mette al primo posto la conoscenza, senza la quale non si potranno sviluppare le competenze e le abilità? Bella domanda. Credo che questo nostro Paese abbia perduto la facoltà critica per sottoporre a riflessione “ciò che passa il governo”!
La scuola dell’Autonomia è anche definita “la scuola dei progetti”, con denaro a pioggia, proveniente soprattutto da fondi europei, di cui non tutti beneficiano (ci conosciamo bene noi italiani, sappiamo di che pasta siamo fatti…). Le furberie si sguinzagliano, sotto forma di fantasiosi progetti, la cui ricaduta spesso è dubbia, perché utilizzati nelle ore curriculari finiscono per togliere tempo agli insegnamenti curriculari i quali (mentre ne parlo mi rendo conto che, probabilmente, sono frutto della mia fantasia, perché non esistono più…). E intanto scopro dai miei alunni della seconda e terza superiore che Vienna si trova in Italia, forse e che l’Inghilterra è una città! E qui mi fermo.
Tuttavia è certamente positivo che ciascuna istituzione scolastica possa definire in modo autonomo il proprio piano dell’offerta formativa; ma forse in questi vent’anni il Ministero avrebbe potuto fornire un maggior supporto alle scuole stesse, anche dal punto di vista finanziario (i fondi per l’autonomia, dal 1999 in poi, non solo non sono mai aumentati, ma addirittura sono stati ridotti). Invece sappiamo che, in forza della legge sulla Devolution di molte delle competenze statali alle regioni, voluta dal governo del tempo, anche gli aspetti economici sono ormai decisi e dispensati dalle Regioni e dagli USR (Uffici scolastici regionali), a cui il Ministero della (Pubblica) Istruzione si limita ad elargire delle semplici e rapide linee guida.
Per concludere, l’uso di una pedagogia demagogica sta producendo confusione nelle menti dei discenti, ma anche in quelle dei docenti, che hanno smarrito il vero senso del proprio lavoro, di fronte all’avvilimento del dover constatare che i frutti del proprio impegno rischiano di andare irrimediabilmente al macero, con gravi costi sociali, di cui stiamo già apprezzando gli effetti.
Invitiamo i lettori ad una seria e profonda riflessione, anche attingendo da esperienze personali. Essi possono spontaneamente contribuire ad un cambiamento necessario, che spero qualcuno voglia cominciare a promuovere. Occorre rivedere la questione dell’autonomia scolastica, perché la scuola non è un’azienda e deve ritornare pubblica, se vogliamo alzarne il livello qualitativo, pena lo scadimento della società tutta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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