Dopo la Brexit cresce la tensione tra Londra e la Scozia


di Giulio Pappa

Come previsto, in seguito alla Brexit, le esportazioni dal Regno Unito verso l’Unione Europea (UE) sono diminuite del 68% rispetto ad un anno fa.

La Scozia, che nel referendum del 2016 sulla permanenza del Regno Unito all’interno dell’UE si era espressa in maggioranza per il “sì” con il 62% dei voti contrari alla separazione, mal digerisce le parole del Primo Ministro britannico Boris Johnson ostili ad un secondo referendum sull’indipendenza scozzese.

Il governo di Londra ritiene che un referendum di una tale portata, come quello sull’indipendenza di una parte costitutiva del Regno, possa essere indetto solo una volta in una generazione. Il prossimo, quindi, non dovrebbe potersi tenere non prima del 2050.  

La leader del partito indipendentista SNP (Scottish Nationalist Party) e primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon, ha dichiarato di voler ad ogni costo promuovere un nuovo referendum per uscire dal Regno Unito, anche senza il consenso del governo centrale.

Le prossime elezioni che si terranno in maggio potrebbero rafforzare le posizioni del partito indipendentista che già ha la maggioranza dei deputati nel parlamento scozzese.

La prima ministra scozzese Sturgeon lega l’indipendenza da Londra all’adesione della Scozia all’Unione Europa.

Certamente non sarà una strada facile, in quanto la domanda di adesione scozzese si scontrerebbe inevitabilmente con il veto della Spagna, contraria all’entrata nell’UE di una regione “separatista” come la Scozia.

Infatti, il governo spagnolo porrebbe il veto all’ingresso della Scozia nell’UE in virtù della simile condizione della Catalogna, regione che già aveva provato con duri scontri a proclamare la sua indipendenza da Madrid nel 2017.

Per il Regno Unito, l’indipendenza della Scozia potrebbe comportare la riduzione di un terzo del suo territorio e più del 10% della popolazione totale.