Divieto di licenziamento: perché la proroga non è risolutiva


Prof. Vincenzo Ferrante – fonte: ipsoaquotidiano

Con ogni probabilità il blocco dei licenziamenti economici durerà fino al prossimo 30 giugno. Il Governo sta, infatti, ultimando l’elaborazione del testo del decreto Sostegni che conterrà le nuove misure per imprese, professionisti e famiglie. La proroga del divieto di licenziamento dovrebbe aiutare datori di lavoro e lavoratori a prepararsi ad un graduale ritorno al regime ordinario. Ma che cosa potrebbe accadere il 1° luglio, ovvero il giorno successivo alla scadenza del blocco? E’ difficile fare delle previsioni. La risposta dipende in gran parte delle prospettive di sviluppo e di crescita economica, ma è doveroso pensare già da ora alle possibili azioni preventive.

Mentre il piano di vaccinazione fa fatica ad avanzare, per il perdurante scarto fra le dosi consegnate rispetto a quelle ordinate, il Governo sembra voler prorogare, con il decreto Sostegni, al prossimo 30 giugno il blocco dei licenziamenti posto in essere lo scorso anno nel bel mezzo della pandemia, parallelamente al finanziamento di forme straordinarie di sostegno al reddito, attraverso la cassa integrazione Covid-19 e l’accesso al FIS per le imprese con meno di 15 dipendenti.
Dalle dichiarazioni rilasciate dal Governo sembra di poter dire che si tratti dell’ultima proroga, di modo che, anche grazie al naturale ridursi del contagio che si è registrato la scorsa estate, imprese, sindacati e lavoratori sarebbero chiamati ad utilizzare questo trimestre per prepararsi ad un graduale ritorno al regime ordinario.
Ma che cosa potrebbe accadere il 1° luglio, ovvero il giorno successivo alla scadenza del blocco?
È chiaro che tutte le imprese (grandi e piccole) che hanno visto una riduzione dell’attività, utilizzeranno il primo giorno disponibile per intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di modo che i lavoratori che riceveranno la comunicazione vedranno interrompersi il loro rapporto ricevendo dai datori il pagamento del preavviso dovuto in questi casi, secondo una misura variabile da settore a settore ed in correlazione alla durata del rapporto estinto, con un minimo di poche settimane ad un massimo di 3 o 4 mesi (anche se deve dirsi che, in certi particolari casi, il preavviso può anche superare queste soglie arrivando anche ai sei mesi).
Venuto a scadenza il preavviso (cui quasi mai corrisponde un obbligo effettivo di lavorare), tutti i lavoratori avranno ancora diritto all’indennità didisoccupazione (NASpI), con il riconoscimento di un importo pari al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni e con un massimale di poco più di 1.300 euro mensili. Tale importo però viene progressivamente a ridursi dal quarto mese in avanti. La durata della NASpI è variabile, in ragione dei contributi effettivamente versati nei quattro anni antecedenti la data in cui il licenziamento produce i suoi effetti, potendo arrivare, in caso di prolungata occupazione, sino ad un massimo di due anni
Infine si deve segnalare come la fine del blocco non darà vita da subito ad un colossale e contemporaneo esodo di massa, ove si tenga conto che vi sono imprese che non hanno ancora esaurito la disponibilità di accesso alla cassa integrazione guadagni per Covid-19: in questo caso, infatti, sarà possibile continuare a mantenere in essere i rapporti di lavoro, anche ricorrendo, ove sussistano i requisiti, alla, cassa ordinaria. Il blocco, infatti, dovrebbe doversi considerarsi alla stregua di una parentesi, cosicché la sua durata dovrebbe essere per così dire “sterilizzata”, permettendo l’accesso alle misure ordinarie, già suscettibili di applicazione al momento dell’insorgere della pandemia nel marzo del 2020.
È vero, comunque, che è difficile fare delle previsioni, poiché la risposta attesa all’eventuale fine del blocco dipende in gran parte delle prospettive di sviluppo e di crescita economica che si verranno a realizzare nelle prossime settimane, in relazione all’evoluzione della pandemia. In questo senso si deve registrare il fatto che, anche nel periodo più buio, la richiesta di occupazione non è mai del tutto venuta a mancare, specie nei settori più direttamente interessati allo sviluppo di servizi collegati alla quarantena (si pensi, solo per fare un esempio, alle vendite on line). Tuttavia le incertezze sono veramente tante e sarebbe davvero poco sensato confidare sulla capacità del mercato del lavoro di trovare in via autonoma un equilibrio.
In questo senso, non apparirebbe illogico se i flussi di spesa che in questo momento si indirizzano al finanziamento della cassa integrazione Covid-19 venissero utilizzati per sviluppare l’occupazione nei servizi pubblici attraverso un piano diretto a far luogo a nuove assunzioni: le vicende recenti, infatti, hanno dimostrato una preoccupante carenza di personale medico, infermieristico e sanitario in genere, che già ha visto l’assunzione di alcuni medici e infermieri.
Non si tratta però solo di sviluppare i servizi sanitari.
La pandemia ha fatto emergere infatti un’area di povertà impensabile fino a pochi anni fa, che sembrerebbe richiedere, per un verso, il lancio di un piano di rinnovamento e manutenzionedi tante opere pubbliche, ma al contempo anche un necessario sviluppo dei servizi di assistenza alle persone, posto che non si può pretendere di lasciare alla filantropia o alla carità pubblica la cura di una fetta così grande della popolazione.