Differenziare gli stipendi degli insegnanti? Una riforma liberale per la scuola


di Giovanni Cominelli

L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani – OCPI – nell’autunno scorso aveva già fatto i conti in tasca ai programmi elettorali dei partiti, che nel corso della campagna elettorale proponevano “generosamente” un aumento degli stipendi degli insegnanti italiani, per portarli all’altezza della media europea.
Secondo i dati forniti dall’Osservatorio, che elabora a sua volta dati Eurydice e ministeriali, la retribuzione media degli insegnanti italiani è di 30.784 euro, quella dell’Eurozona è di 44.408 euro. La differenza: è di 13.624 euro.  Gli stipendi francesi sono di 36.382 euro, quelli spagnoli di 38.312 euro, quelli tedeschi di 67.138 euro. Quelli greci di 8.330 euro, quelli maltesi di 28.356 euro. In Italia: Scuola dell’infanzia Euro 28.686, Scuola elementare Euro 28.868,  Scuola media Euro 31.337, Scuola superiore Euro 32.896.
By-passando qui, per ragioni di spazio, le cifre più dettagliate proposte dall’OCPI – che mettono in relazione gli stipendi con il diverso costo della vita di ciascun Paese – resta che gli stipendi degli insegnanti italiani sono bassi, quale causa ed effetto di una bassa stima sociale e politica a loro destinata. È dunque urgente aumentarli, se il Paese decide di valorizzare una categoria professionale, che ha un ruolo strategico per lo sviluppo del Paese. Servono circa 11,6 miliardi l’anno per portare gli stipendi all’altezza europea. E questo implica scelte di Bilancio: per dare qui bisogna “non dare” di là, per esempio all’anticipo dell’età di pensionamento o al famigerato 110.

È solo superfluo notare che di questo argomento sono pieni da anni gli scaffali del dibattito pubblico e di quello governativo. Di fatto, i piccoli e risicati aumenti di stipendio sono stati conseguiti dopo lunghe e sempre estenuanti contrattazioni sindacali. Il Ministro Valditara ha finalmente chiuso il 10 novembre scorso l’accordo politico con i Sindacati per procedere alla firma del nuovo Contratto nazionale. E in questi giorni ha compiuto un passo audace, proponendo una differenziazione degli stipendi degli insegnanti, in base al costo territoriale della vita. E poiché il costo della vita al Nord è più alto, gli insegnanti del Nord devono essere pagati di più. Parrebbe puro buon senso. Ma non pare tale alla sinistra – dal sindaco di Napoli a Bonaccini, a Calenda – che ha accusato il Ministro di antimeridionalismo, ovviamente selvaggio.
La proposta di Valditara parte da un dato incontrovertibile: che un vincitore di concorso che sale dal Sud al Nord, se non dispone di una casa di proprietà e/o di una rete familiare che lo sostenga, quassù non è in grado di mantenersi. Dunque, ha bisogno di uno stipendio più alto, soprattutto, se immigrato nelle aree urbane.
Se nel cervello della sinistra massimalista e sedicente riformista e sedicente liberale e terzopolista non circolassero tuttora dei grumi ideologici, questa realtà dovrebbe essere evidente: che la proposta di aumentare lo stipendio a chi insegna a Nord favorisce specialmente i neo-laureati meridionali.

Tuttavia, se Valditara ha afferrato coraggiosamente il toro della differenziazione degli stipendi degli insegnanti, la mia impressione è che lo abbia afferrato non per le corna, ma per la coda, con il rischio evidente di essere sbattacchiato di qua e di là, allo sbaraglio.

Quale sarebbero le due corna da afferrare?

Fuor di metafora, il primo è quello di un disegno di riforma complessivo e pubblicamente annunciato dell’architettura del sistema di istruzione/educazione. Si può capire che, a fronte di una massiccia resistenza conservatrice dei sindacati e della sinistra “storica” e dei populisti – nelle elezioni del 2018, il 41% degli insegnanti ha votato il M5S –  il Ministro pensi di procedere cautamente con il cacciavite, come aveva tentato di fare Fioroni nel 2006. Con risultati non indimenticabili. Poiché le riforme complessive mettono in allarme gli insegnanti e poiché nessun governo che le abbia progettate non ha mai potuto annunciare di averle realizzate, allora si prova a procedere per piccoli passi, per riforme a coriandolo. A quel disegno, comunque, apparterrebbero una ridefinizione del Curriculum nazionale, un’Autonomia reale delle scuole, un Ordinamento per cicli e per indirizzi e per età, che tenesse conto dell’antropologia delle nuove generazioni oggi, una Politica di formazione, reclutamento e gestione del personale. E qui il Ministro potrebbe, alla luce di quel disegno esplicitato, afferrare il secondo corno del toro: appunto quello della formazione, reclutamento e gestione del personale insegnante e dirigente. La proposta di legge n. 953, d’iniziativa della deputata Valentina Aprea– ma il testo dell’epoca dice “deputato” – presentata il 12 maggio 2008 “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”, all’Art. 17 – Articolazione della professione docente – prevedeva una professione docente “articolata nei tre distinti livelli di docente iniziale, docente ordinario e docente esperto, cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata”. Una scuola realmente autonoma, gestita da un Consiglio di amministrazione – così come prevedeva il PdL n. 953 – potrebbe assumere direttamente gli insegnanti, sottraendoli così alle grinfie di un algoritmo nazionale, molto artificiale e poco intelligente, che sbatte gli insegnanti nei posti più lontani della Penisola. Una scuola realmente autonoma potrebbe formare e valutare sul campo gli insegnanti. I quali potrebbero passare dal livello iniziale ai due successivi e perciò, qualora ritenuti idonei, accedere a stipendi più corposi in relazione alle competenze acquisite. Le recenti proposte del Ministro dell’insegnante tutor e della differenziazione territoriale verrebbero così agganciate ad una prospettiva meno contingente. E’ a quella proposta liberale che il governo dovrebbe tornare.

Editoriale da santalessandro.org