Dentro la Quadriennale del Fuori


Ci sono mostre che nascono con la camicia, come certi pargoli, e altre pure. Di forza, però. È questo il caso della Quadriennale d’arte di Roma. Travagliata dalla pandemia, l’edizione diciassette – numero non fortunato, di suo – riaperta al pubblico, tale sarà, salvo ulteriori travagli, fino al 18 luglio. Fuori da tutto ma non dal covid, s’era detto alla presentazione dell’evento, nel luglio di un anno fa, momento forte della stagione artistica non solo capitolina.

Oggi si racconta da dentro, con l’ausilio di Stefano Collicelli Cagol, il curatore che l’ha ideato assieme a Sarah Cosulich. Essere portati per mano nel meccanismo curatoriale, guidati dall’occhio di chi l’ha pensato, è un privilegio che avvicina e chiarisce ma può anche sviare e celare. Con la soddisfazione d’un padre che mostra la sua creatura in buona salute, dopo aver superato il male di stagione, il curatore-anfitrione guida il cronista nella spiega che a tratti disvela, a momenti ammalia. Sono i rischi della visita guidata e del mestiere.

Ma partiamo dall’inizio, dal nomen che mai come in questo caso è omen: Fuori. Un richiamo palese al movimento per la liberazione omosessuale che nei bollenti anni Settanta portò al centro della tematica politica i diritti della comunità omosex. E dunque dall’acronimo del Fuori – Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano – di stampo pseudomarxista ai padiglioni della XVII biennale il passo è breve anche se distante nel tempo, seguendo una traccia che vuol essere liberatoria quanto dissacratoria. Fuori da tutto: schemi e tabù, in una carrellata di sensi (doppi) e opere contaminate da ciò che in tempi di pervasivo genderismo non è fuori, ma ben dentro le logiche del tempo e del mercato del nuovo ordine erotico, per dirla come Fusaro.

Dentro la Quadriennale del Fuori, dunque, sul filo della triplice parola d’ordine seguita per la selezione della quarantina d’artisti esposti: il desiderio erotico, il palazzo – nell’accezione sub-specie pasoliniana – e l’incommensurabile. Procediamo, in una carrellata d’opere che s’offrono allo sguardo e alla spiega del curatore – amabile e preparatissimo – nelle sale del Palaexpò dove la mano architettonica di Alessandro Bava ha modificato gli spazi al punto da stravolgerne la riconoscibilità architettonica.

Apre le danze il dissacrante made in Italy di Cinzia Ruggeri, coi suoi Stivali Italia, l’Abito ziggurat e l’Ultima cena di animaletti sottoteca. Ultima opera in senso lato, precedente la morte dell’artista. Tutto al femminile l’incipit al pianterreno, con le opere al blu di Irma Blank. Le coloratissime sculturine di materiale riciclato e sapore ontaniano di Isabella Costabile. La serie di foto antipatriarcali e mortifere di Lisetta Carmi e l’altre che sciorinano un parto come fosse un’opera d’arte.

Gli schizzi dei cessi berlinesi ecologici di Bruna Esposito. Poi, a braccio: i gabbioni luminescenti di Monica Bonvicini – suo anche il video dove distinti signori si fracassano nel lucòre d’un candido intonaco – le sculture vulvofalliche di Lydia Silvestri che non sfigurerebbero in un remake d’Arancia meccanica; il cavallo di Troia naturalista di Chiara Camoni; l’omaggio alle streghe sopravvissute ai roghi di Raffaela Naldi Rossano; le macrotele di Diego Gualandri, il più giovane degli artisti in mostra, lenzuola segnate di emulsioni cromatiche dai suoi amplessi amorosi; i cartoni da pizza su pallet di Giulia Crispiani; i danzatori esausti di Michele Rizzo.

Eppoi si sale, a riveder il lucernajo, parafrasando il poeta. Su, per lo scalone che già accolse le glorie del Ventennio, sotto i fioroni di cartapesta di mela cotogna e nontiscordardime del duo Halilaj-Urbano, icone del matrimonio gajo, omaggio ai tempi d’opposto segno. E ancora, le tele mentolate di Francesco Gennari, le deiezioni oniriche e vermose di Benni Bosetto, le luminescenze di Davide Stucchi a dialogare con la corposa quadreria di Salvo. Poi di nuovo a pianterreno, alla scesa sotto i graffiti d’Amedo Polazzo, a chiudere il giro incocciando il fragolone di Valerio Nicolai, orbo del suo pirata; i rimandi baconiani delle tele di Guglielmo Castelli; quelli giotteschi di Romeo Castellucci, con tanto di pugno in faccia o ad uso d’altre pratiche erotiche; i parrucchini semoventi di Anna Franceschini; trine & pizzi di Sylvano Bussotti (una chicca il suo disegno da dodicenne); i ricami a punto luce di Maurizio Vetrugno, commissionati agli artigiani di Bali, che nulla hanno da invidiare ai merletti di Vezzòli. Buon ultima, degna chiusa ai tempi del covid, l’installazione Corpo di fabbrica: il respiro di Norma Jeane coordinato tramite elettrodi al corpo con le luci delle arcate esterne, visibile di notte e a mostra chiusa. Sorta di saturimetro a misurare, coi battiti dell’artista, questo nostro tempo di passo.

Che dire. Eccola la forzosa camicia che stringe le sale del Palaexpò più delle paratìe di Bava. Madamina, è questo il catalogo – o meglio l’antologia, come recita appunto il corposo catalogo dell’edizione, sorta di vademecum al decennio trascorso e alle quadriennali passate – dell’oggi. Quel che si vede è quel che c’è, c’è stato e sarà, con un occhio alle glorie giovani e meno degli italiani all’estero, l’altro alle distopìe in bellavista del presente, in linea col pensiero unico del nuovo (dis)ordine globale dato per progresso, conquista civile. Siamai sociale, vocabolo cassato dal presente come ogni residuale ideologia e conquista novecentesca. Ecco la vera camicia di forza di questa Quadriennale, più delle chiusure, del distanziamento e delle mascherate imposte dal covid.

Ma non si getti la croce addosso ai cantori, a chi corre l’onda del tempo facendo il suo al meglio delle proprie possibilità e volontà. Questa Quadriennale s’ha da vedere, facendo eco all’Innominato, perché tasta il polso al presente e getta lo sguardo al futuro distopico che si prepara. Il suo compito lo svolge, in bell’ordine. Centra l’obiettivo. Ma se questo era declinare l’oggi e il domani con la parola d’ordine una e trina del Fuori, non pare centrato. Ché d’incommensurabile non c’è traccia, del palazzo frammenti, di desiderio restano brani necrotici. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su www.palazzoesposizioni.it e www.quadriennale2020.com.

Source: agi