Graziella Balestrieri
Premio Oscar, Maestro in musica e della musica, autore delle più importanti e significative colonne sonore nel mondo del cinema, ma non solo. Stiamo parlando del maestro Nicola Piovani, che tra le sue collaborazioni può vantare (e viceversa) quella in due album fondamentali per la carriera di Fabrizio De André. Un ricordo, il suo, che ne apre tanti, da Fellini a Morricone fino ad arrivare ai giorni nostri, tra politica, scienza e sogni.
È stato coautore in due album di De André, due album fondamentali. Cosa le ha chiesto Fabrizio per Non al denaro, Non all’amore, Ne al cielo? E cosa le ha chiesto invece per Storia di Un impiegato?
Mi ha chiesto semplicemente di cercare idee, soluzioni musicali coerenti al progetto e ai testi, così diversi da un album all’altro. E mi ha entusiasmato subito.
Come siete venuti in contatto? E come mai scelse proprio lei?
Per quel che ne so io, lui aveva sentito gli arrangiamenti che avevo fatto per un LP di Duilio del Prete. Cercava un arrangiatore (forse era in crisi con Reverberi) e mi ha fatto telefonare da Roberto Danè. Quando ci siamo incontrati, mi ha informato che il progetto poetico dell’album c’era tutto, ma le musiche e i versi ancora no: c’era qualche spunto, qualche frase. E poi mi disse che c’erano alcuni testi, tratti da Edgar Lee Masters, belli ma non “musicabili”. E come esempio mi fece leggere il testo di Un medicO. “Vedi, non è adatto a una canzone”. Ero a Genova, a casa sua, e siccome lui si svegliava tardi la mattina, ne approfittai per provare a mettere in musica proprio quel testo, “Un medico”. Dopo pranzo lui la ascoltò, si incuriosì, e la sera mi propose di lavorare con lui anche alla scrittura musicale di altre canzoni, non solo degli arrangiamenti.
Come è avvenuta la lavorazione dei due album?
La lavorazione avvenne a Roma. Le musiche le componevo a casa mia, da solo. Ma poi seguivano lunghe e piacevoli sedute di confronto, in cui cambiavano note e parole, inventavamo soluzioni, ipotizzavamo esperimenti, cantavamo e suonavamo insieme a lungo.
Sono due album completamente diversi: di Storia di un impiegato in un’intervista De André disse che ci volle un anno e mezzo di lavoro e fu tormentatissimo: come mai? Lei avvertiva questo tormento quando era insieme a De André o era solo un tormento che si percepiva dai testi?
Riguardo a Storia di un impiegato le sue riserve, indecisioni o, se vuole, tormenti riguardavano proprio il progetto in sé: l’approccio direttamente politicizzato all’opera gli dava diffidenza, perplessità. O forse, diciamo, paura. Era convinto che sarebbe andato male.
La libertà che c’è nelle opere di De André non si percepisce in nessun altro artista neanche oggi, intendo libertà di pensiero, del sentire, dell’agire sia come individuo che, come individuo facente parte di una società. De André oggi avrebbe difficoltà ad essere ascoltato e percepito, visto la società che siamo diventati?
Fabrizio era un libero pensatore, un poeta autentico. E i poeti hanno avuto sempre difficoltà ad essere ascoltati da tutti. Ma ci sono sempre, ieri come ora, animi bisognosi di poesia, felici di ascoltarli. Se invece parliamo di mercato, di mercato discografico, editoriale, entriamo in un ambito tossico, distorto, dove le variabili per un successo o un fiasco sono tantissime e a volte misteriose. Fabrizio non ha mai inseguito il mercato, è sempre stato il mercato che ha cercato Fabrizio, a volte con ritardi inspiegati. Se De André avesse seguito la strada del mercato, come molti suoi colleghi hanno fatto, avrebbe passato la vita a tentare di riscrivere Marinelle e fac-simili dei suoi precedenti successi. E invece lui, periodicamente, ha serenamente cambiato strada, grande o piccolo che fosse il successo.
De André ha una scrittura completamente unica: per quanto la sua poetica fosse elevata comunque arrivava a tutti: per lei De André è un cantautore o un poeta?
Dico “poeta” perché “cantautore” è una parola che non mi entusiasma.
Il suonatore Jones come è nata? Perché a un certo punto la musica quasi interrompe il racconto e sembra iniziarne un altro, una roba fiabesca, poi riprende di nuovo con le parole e poi il finale che passa da uno stato di allegria a qualcosa che muore, però riprendendo l’inizio della canzone: perché l’ha pensata così?
Il suonatore Jones ha una storia particolare che ho raccontato più volte. Nel progetto iniziale doveva essere una canzone in stile Dylan-Woody Guthrie: cioè stile ballata americana, con chitarra e armonica a bocca, in quattro quarti. Ma quando arrivammo alla fine del disco, non riuscivamo a trovare una musica che ci convincesse appieno: il disco, in corso d’opera, aveva cambiato i suoi binari iniziali. Canzoni come La Collina, Un ottico, Un Chimico, avevano battuto strade inedite per il percorso di De André, l’album aveva assunto un’altra faccia, un’altra anima musicale. Dopo giorni di incaglio creativo, mi venne in mente di proporre a Fabrizio, per il finale dell’album, un netto cambio di strada. Proposi una musica in Tempo di siciliana, un sei ottavi di antica tradizione nostrana, abbandonando la suggestione folk-americanoide -molto di moda in quegli anni. La scrissi velocemente, piacque a tutti e la registrammo in quattro e quattr’otto: flauti dolci, pochi strumenti e epilogo sinfonico, con vocalizzi di soprano. Fabrizio in seguito mi disse più volte di essere molto affezionato proprio a quella canzone.
La vostra collaborazione è finita lì oppure poi è nata anche un’amicizia?
La nostra collaborazione finì lì: quegli album sono una parentesi sinfonica nel suo cammino. Lui poi ha navigato per altre acque, aveva altre esigenze. E, nel mio piccolo, anche io, ero attratto dalla musica per il cinema, il cinema era generoso con me. Ne restò un’amicizia a distanza molto cordiale e molto rispettosa.
Facciamo che De André è vivo, è stato in un altro posto e domani la chiama per sapere come vanno le cose qui e le chiede quale sua canzone rappresenta di più la società di oggi: quale sceglie?
Un matto
Abbiamo le canzoni certo, ma quanto manca De André a questo paese?
Beh, diciamo che c’è penuria di liberi pensatori, di poeti che non si misurano sul numero di copie vendute. Anche se ce ne sono: ne conosco diversi, che fanno meno chiasso, ma che vivono per la poesia, non per i privilegi che possono derivare dalla professione di “poeta”.
Lei è “molto” attivo su Twitter (X): condivide pensieri e anche posizioni politiche: come si trova sui social?
Il social li frequento poco: i miei account Facebook, Instagram sono gestiti da miei collaboratori, che ne fanno un utile uso di comunicazione professionale, e su quelli non metto bocca. Twitter invece è un mio piccolo spazio, che seguo personalmente, e su cui nessuno mette bocca. Twitter – io lo chiamo ancora così, X è lugubre – mi sembra molto adatto all’arte degli aforismi, nella quale mi diletto, da dilettante.
Lei è notoriamente di sinistra: le piace Elly Schlein, o non crede che possa prendere in mano un partito sempre e troppo diviso?
Auguro a Elly Schlein di riuscire a sormontare le grandi sabbie mobili di un partito che, ad essere generosi, possiamo dire sgangherato. La Schlein ci sta provando e io spero molto in un suo successo, una svolta che ridia ottimismo ai progressisti italiani. Glielo auguro e ci conto.
Ha lavorato con tantissimi registi: quale regista ha sconvolto completamente la sua visione di cinema e di musica applicata al cinema?
Beh, da tutti i grandi ho imparato qualcosa sul tema musica-immagine, partitura-sequenza. Ovviamente, Federico Fellini aveva un modo continuamente spiazzante di lavorare al montaggio di un film. Mai intellettualistico, mai teorico o professorale: aveva la naturalezza del poeta, che è qualcosa che mi contagia sempre molto.
Che ricordi ha del maestro Morricone?
Nei primi anni, quando io iniziavo a lavorare, Morricone è stato per me un maestro generoso di consigli. Poi è diventato un collega molto leale e confidenziale che mi ha molto sostenuto. E negli ultimi anni si è rivelato un vero amico, generosissimo. In tempi di covid tenevamo un rapporto telefonico quotidiano: condividevamo i grandi temi della musica del Novecento – sui quali avevamo idee diverse – e condividevamo con giocoso impegno il tifo per la Roma. Spartivamo anche momenti di regressione creaturale. E risate, di cui sento molto la mancanza.
Come compositore, musicista, e un grande artista del nostro tempo, come vede l’utilizzo dell’intelligenza artificiale?
L’intelligenza artificiale, come tutte le invenzioni scientifiche, può essere usato a fin di bene e a fin di male. Mi hanno chiesto giorni fa se penso che un giorno l’AI potrà sostituire i compositori di musica. Ho risposto che forse potrà sostituire anche gli ascoltatori. Chi lo sa? La mia cultura è fortemente umanistica, ma neanche l’umanesimo è più una certezza. Personalmente, scrivo la musica ancora con la matita e la gomma.
Femminicidio: da uomo e da artista, che cos’è per lei? E c’è un modo per educare le nuove generazioni
Ognuno dovrebbe fare la sua parte. Cominciando per esempio dal linguaggio troppo maschilista, che usiamo con troppa indulgenza. Una donna che pratica ingegneria è un’ingegnera, non un ingegnere. Così come l’infermiera o la portiera.
In molti se la sono presa con la musica trap, ma non è il primo genere musicale che offende le donne: secondo lei la trap ha grande influenza sui giovani di oggi?
Non mi intendo di trap. Ma non è da oggi che le canzoni sono maschiliste. Negli anni Sessanta la radio cantava “Il pericolo numero uno: la donna”, quasi tutte le canzoni diffondevano un’immagine femminile subalterna, sottomessa. Ne ricordo una di successo che diceva: “bella dispettosa / non uscirai di casa / dal primo giorno che diventerai mia sposa”. Ci sono celebri canzoni-sceneggiate napoletane che inneggiano al femminicidio. La novità di alcune zone musicali post-rock in voga è di presentarsi come progressiste, antiborghesi, rivoluzionarie: quando invece rappresentano il peggio del pensiero conservatore.
C’è qualcosa che vorrebbe ancora fare e che ancora non ha fatto?
Ho in mente tanti progetti musicali che non so se farò in tempo a realizzarli.
Il dibattito serrato con il Partito comunista ha un posto di primo piano nella vita dell’intellettuale torinese. A partire dal carteggio con il filosofo marxista, che aprì gli occhi al Pci sui principi del liberalismo e dello stato di diritto
Nella vita intellettuale di Norberto Bobbio un posto di primo piano è senza dubbio occupato dal dibattito serrato con il Pci. Fu lui stesso a menzionare una lettera scritta a mano che ricevette neppure quarantenne, quando era un giovane accademico non ancora definitivamente affermatosi nella scena pubblica. In essa il mittente, il filosofo Galvano della Volpe, si mostrava scettico sul primato storicistico-attualistico della “prassi” e rivelava di aver finito la traduzione di un testo che “sarà una grande sorpresa per tutti”. L’opera, naturalmente, era la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Marx, che della Volpe mise al centro della rinascita del marxismo teorico e impose anche nella cultura internazionale. Quando nel 1946 uscì La libertà comunista, della Volpe ne inviò in giro solo tre copie, come omaggio dell’autore: la prima ad Antonio Banfi, un grande filosofo approdato al Pci da posizioni husserliane e di razionalismo critico; la seconda a Giulio Preti, a lungo osteggiato nell’accademia e di cui della Volpe aveva invece una spiccata considerazione perché riteneva “diverse e superiori le sue conclusioni” rispetto all’approccio di Carnap e del neopositivismo logico; la terza e ultima, per l’appunto, a Norberto Bobbio.
Passarono solo alcuni anni dalla missiva in cui della Volpe sollecitava un giudizio su alcune questioni teoriche, e proprio con Bobbio si sviluppò un importante confronto ideale. Ricorda il filosofo torinese che “della Volpe fu il mio più accanito avversario in una vecchia amichevole polemica su comunismo e diritti di libertà”. La prima risposta di della Volpe alle suggestioni bobbiane, le quali spingevano verso il costituzionalismo liberale come una delle eredità positive per il movimento operaio, lascia in effetti l’impressione che ne ricavò Alberto Asor Rosa, e cioè di una posizione ai limiti dello scolastico che non afferrava le ricadute politiche più generali del dissidio.
Ci fu, però, un secondo momento del dialogo che stupì molto Bobbio, allorché della Volpe raccolse integralmente nella prospettiva del comunismo le sue istanze liberali, con un richiamo a Locke, a Kant, al principio di legalità e al garantismo come canoni insurrogabili. Oltre trent’anni dopo, Bobbio, rievocando la sua lontana disputa con della Volpe, rileverà che nel 1957 il filosofo marxista ebbe un significativo ripensamento, che lo indusse al recupero dei princìpi del liberalismo e dello Stato di diritto in quanto, nella strategia di una democrazia post-borghese, “bisognava risalire non soltanto a Rousseau ma addirittura a Locke”.
I conti teorici tra comunismo e libertà formali sembravano già chiusi con le aperture di della Volpe, rintracciabili negli scritti della seconda metà degli anni Cinquanta ed influenzate chiaramente dalle sollecitazioni del filosofo torinese. A indurre Bobbio nel 1976 a impugnare di nuovo la penna, per infilzare alcuni intellettuali di provenienza comunista, furono essenzialmente due considerazioni: in primo luogo, la crescita straordinaria del Pci, che all’apice del consenso e della propria forza organizzativa evidenziava la carenza di una moderna teoria dello Stato; infine, la prevalenza nel Pci di sensibilità filosofiche post-sessantottine le quali premevano per “sopprimere la politica come tale” oppure in direzione del decisionismo schmittiano, che rigettava le forme e le procedure della liberaldemocrazia denunciate come tentativi di neutralizzazione del conflitto.
A mettere le cose a posto fu Berlinguer. Nel 1977, con la formula della “democrazia come valore universale”, egli troncò le residuali imprecisioni concettuali sugli “universali procedurali della democrazia” che sopravvivano nel mondo della cultura comunista, non certo nei documenti ufficiali o nel corpo dirigente del partito.
Bobbio ha attivato il suo pungolo teorico su molteplici campi, basti pensare alle riflessioni sull’originalità del concetto di “società civile” in Gramsci rispetto alla nozione consegnata dai classici del marxismo. Comunque egli, oltre che un socialista liberale, attento agli ideali dell’azionismo e, da ultimo, alle categorie di Rawls, era anche un teorico del realismo politico. Intuiva che in politica contano le cose più che i nomi. E la “cosa” era in Italia la grande organizzazione, con il radicamento popolare e di classe, inventata dai comunisti. Rispetto a essa, la cultura liberale avrebbe potuto esercitare una funzione di stimolo, di ricognizione critica nella battaglia delle idee. La velleità di sostituire la “cosa” della sinistra storica con la “carovana”, per accarezzare un aleatorio “partito radicale di massa”, ha infatti conquistato i confusi gestori della Bolognina, di certo non Norberto Bobbio. Non è un caso che il filosofo torinese, quando i post-comunisti, in preda a una incompren- sibile euforia, brindavano per la caduta del Muro e per la fine del secolo breve, non si accodasse ai festeggiamenti, ritenendoli fuori luogo. Anzi, rammentava allora, soprattutto a chi dimenticava di cogliere quello che Weber chiamava il tragico nella politica, che la sconfitta del comunismo non inaugurava affatto il tempo gaudioso della rivincita del socialismo liberale. Il “nome”, rimasto un minoritario credo delle élite colte, non trionfava sulla “cosa”, che pure aveva affascinato le masse. Prendeva l’avvio, al contrario, una fase per certi aspetti drammatica. Le contraddizioni sociali, rintracciabili nel cuore del capitalismo, rimanevano del tutto irrisolte. Esse, per giunta, apparivano aggravate a seguito della ritirata di soggetti e ideologie in grado di mobilitare gli oppressi, di aprire orizzonti di senso e di liberazione nelle pieghe della tarda modernità. I vincitori sarebbero stati ancora più inflessibili nella loro volontà di potenza adesso che gli sconfitti vagavano senza una speranza e con le belle bandiere ammainate.
Il filosofo neo-illuminista, scomparso il 9 gennaio di vent’anni fa, aveva compreso che la fine dei partiti, incluso l’inopinato suicidio del Pci, spalancava uno spaventoso vuoto, con la conseguenza di una regressione storica in Italia. Nella proliferazione di modelli organizzativi ambigui, che Bobbio per primo cominciò a denominare “partiti personali”, con la diffusione di un leaderismo sconclusionato e senza identità, finiva la Repubblica antifascista, e con essa i suoi progetti di emancipazione. Vedeva così la luce un laboratorio decadente, analogo a quello confuso e inquietante di inizio secolo, che Bobbio aveva indagato magistralmente nel suo libro dedicato al Profilo ideolo
gico del ‘900 italiano.
Fonte: L’Unità