Dal respiratore alla rinascita. Il racconto di un giovane malato di covid


AGI – La maschera facciale deve aderire bene al volto per non disperdere il getto d’aria, altrimenti scatta un suono metallico e il respiratore artificiale non fa più il suo dovere. Se il covid diventa aggressivo, nei primi periodi di ospedalizzazione questo macchinario può farti compagnia anche diciotto ore al giorno.

Una lotta in cui dormi poco o nulla: le luci del reparto, il passaggio degli infermieri, le attività dei compagni di stanza, le preoccupazioni finiscono per assorbire le poche ore libere, prima che il volto torni nuovamente imprigionato e il getto d’aria ricominci il suo ciclo. La Niv, abbreviazione in gergo sanitario della “ventilazione meccanica non invasiva”, in ospedale è tra gli ultimi step prima della terapia intensiva.

S’interrompe solo per i pasti o i controlli medici: i bordi gommati della maschera ti lasciano profondi solchi sulla faccia. Chi scrive ha 38 anni ed è stato ricoverato per 20 giorni con una polmonite interstiziale bilaterale all’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. La struttura è uno dei poli di eccellenza del sistema sanitario della Regione Lazio.

Qui il 2 febbraio dello scorso anno, agli inizi della pandemia di coronavirus in Italia, i virologi sono riusciti, tra i primi in Europa, a isolare il virus. Qui, da un anno, medici e infermieri combattono il Covid-19, spesso uscendone vittoriosi, qualche volta no.

Se si arriva al ventilatore vuol dire che la malattia è in fase avanzata: almeno, la maschera fa poco rumore ed è più sopportabile del casco. Hai le orecchie libere per poter ascoltare la musica, i messaggi degli amici, un podcast o qualunque cosa riesca a farti evadere per qualche minuto dal letto dove sei ricoverato.

Dove questi strumenti, insieme ai medicinali, sono tra le difese principali con cui, se hai insufficienza respiratoria acuta, provi ad affrontare il picco della malattia, che mediamente si manifesta dieci giorni dopo i primi sintomi.

“La formazione fatta negli scorsi anni per l’Ebola, simile a quella per il Covid, ci ha fatto arrivare preparati all’impatto di questo nuovo virus“, raccontano diversi infermieri dello Spallanzani. Alcuni di loro, così come i medici, in questo anno di lavoro estenuante hanno contratto il coronavirus, conoscono bene il mal di testa feroce e la febbre alta dei primi giorni, così come i dolori articolari.

Qualcuno ha sperimentato anche la fame d’aria. Una volta guariti, tutti sono tornati in prima linea con abnegazione. Non solo: nei giorni di Natale hanno trovato perfino il tempo di allestire un presepe all’interno di un casco respiratorio. Una dimostrazione del fatto che le cure non si concentrano solo sull’aspetto clinico ma anche sul rapporto umano con i degenti.

Perché il Covid isola anche dagli affetti, impedisce ai malati di avere qualsiasi contatto con parenti e amici, sottrae dalla quotidianità frenetica della modernità imponendo di riscrivere la propria scansione quotidiana del tempo. Poi, se i parametri reagiscono positivamente agli stimoli delle cure, l’applicazione giornaliera della ventilazione viene progressivamente ridotta.

Crescono le ore di somministrazione di ossigeno tramite la normale mascherina. Dopo va a scalare anche quello. Ogni cambio di colore del filtro attaccato al tubo segna la diminuzione del volume di aria necessaria. E fa crescere la speranza.

Qualche settimana dopo l’ospedale fai la prima passeggiata all’aria aperta, partendo dal giro attorno al palazzo. Una camminata di qualche minuto sotto al sole di mezzogiorno diventa una rinascita fatta di piccoli passi, poche forze e tanta pazienza. L’aria fresca dell’inverno non è mai stata così bella da respirare.