Maurizio Crippa
La creazione del consenso non è un’arte nuova. Era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta… la conoscenza dei modi per creare il consenso altererà tutti i calcoli politici”. E’ ovviamente un tantino esagerato scomodare il patriarca dell’informazione Walter Lippmann, o le sue considerazioni sulla nascita del giornalismo come arte dei dispacci commerciali che precedevano le navi nei porti, per interrogarsi sulla suggestione di un ottantenne e potente armatore come Gianluigi Aponte che decide di comprarsi il giornale di una città marinara, il Secolo XIX di Genova. Certo, Aponte possiede una grande flotta cargo e ha interessi portuali strategici, ma i dispacci non viaggiano più sui clipper o con i piccioni. Però rimane pur sempre vero, e non solo per l’italia, che controllare i giornali, anche se di cabotaggio locale, è importante, anzi decisivo, per chi voglia essere influente, essere classe dirigente o di una classe dirigente politica essere la sponda.
L’ultimo esempio è quello dell’acquisto da parte dell’armatore napoletano-svizzero della storica testata genovese, che da tempo non rientrava più nelle strategie del gruppo Gedi di John Elkann, al pari di tutte le altre testate locali un tempo ossatura del gruppo. Macaso Genova a parte (le cui specificità ha raccontato il Foglio ieri), in Italia stiamo assistendo da tempo a un significativo fenomeno: altro che mondo dei giornali dato per morto, altro che mercato residuale, la stampa è appetita e vive un’imprevedibile nuova brillantezza, almeno per quanto riguarda il mercato delle acquisizioni. Segno evidente che gli investitori riconoscono ancora nei giornali dei veicoli efficaci, se non per fare utili, per essere presenti e influenti nelle aree più diverse del paese.
Del Secolo XIX del nuovo editore Aponte si giudicherà in futuro; invece sulle mosse del gruppo editoriale di Antonio Angelucci – “re delle cliniche e deputato della Lega”, scritto tutto di fila così fa più paura – è in corso da tempo una campagna d’allarmismo democratico piuttosto forzosa, per non dire bislacca. Angelucci possiede il Tempo, il Giornale e Libero: sogno o incubo di una nascente galassia editoriale di destra, anche se i numeri non sono proprio da blockbuster, e punta ora ad aggiungervi l’agenzia Agi. Una mossa che lo farà diventare un Orbán, secondo l’istrionica Cassandra Bersani. Angelucci non ha l’aria di essere un Orbán, tirature esigue a parte, e forse nemmeno sogna un piano rinascita (ops) del giornalismo schierato a destra (non ci riuscì mai nemmeno Silvio Berlusconi). Ma certamente il peso e la visibilità offerte da un polo di giornali d’area governativa non dispiace né a lui né alle sue attività. In realtà, anziché gridare al conflitto d’interessi come fa l’opposizione, basterebbe riflettere che è Eni a voler dismettere un pozzo ritenuto esaurito. Eni a parte, anche la strategia del gruppo Gedi è da tempo quella delle grandi dimissioni: di testate. L’ultima il Secolo XIX, ma prima erano stati venduti i locali veneti permettendo la nascita di un nuovo piccolo (o grande, si vedrà) polo del nord-est. L’imprenditore Enrico Marchi (aeroporti e occhio strategico a logistica e trasporti), attraverso Banca Finint controlla ora con Nord Est Multimedia ben sei testate: il Mattino di Padova, la Nuova Venezia, la Tribuna di Treviso, il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto di Udine e il Piccolo di Trieste. Altra sfida controcorrente per un mercato quantomeno “maturo”, ma anche in questo caso conta di più la possibilità di intervenire con l’informazione nel dibattito pubblico o politico sui grandi temi o progetti territoriali. E i rapporti con il sistema politico del Triveneto, stabilmente incardinato a destra, hanno una loro logica. Non sono le tirature a fare la differenza: le testate non si contano ma si pesano. Non è il popolo che corre all’edicola, quello non c’è più: è semplicemente la carta, bellezza. Soprattutto in un sistema italiano in cui l’informazione è statica: le tv copiano ancora i giornali, ma i giornali ormai copiano i social. Invece, quando si tratta dei dossier che contano, la visibilità e il ruolo dei giornale di carta, forse più in provincia che a livello nazionale, è ancora un punto di riferimento.
Non è poi così diverso all’estero. In Francia a fianco di tre-quattro tesate nazionali il sistema dei giornali locali ha un peso specifico, la stampa locale viaggia bene in Gran Bretagna, in Germania e persino negli States: merger, acquisizioni e rilanci non si contano. La scala è ovviamente diversa, ma il tentativo del governo inglese di bloccare la vendita del Daily Telegraph a un editore degli Emirati fa capire quanto ancora la stampa sia avvertita come un asset cruciale. Diciamo che in Italia il cabotaggio è minore, ma anche la nostra stampa mostra una vivacità diffusa. Non si tratta certo della grande trasformazione futuribile di cui si fantasticava anni fa – il digitale, le piattaforme – quella i grandi player la lasciano alla creatività corsara delle piccole testate innovative. Ma è una conferma che i giornali ancora contano, per chi aspira a farsi classe dirigente, o almeno a influenzare la classe dirigente che c’è. E chissà se questa vivacità, prima o poi, riuscirà ad avere ricaschi positivi anche in termini di innovazione.
Fonte: Il Foglio