Ricostruzione storico cronologica e verità taciute, nel 106° anniversario del funesto avvenimento.
DI Augusto Lucchese
Per rendersi conto dei motivi che determinarono la disfatta di Caporetto (oggi Kobarid, ricadente nel territorio assegnato alla Slovenia dal trattato di pace), occorre fare riferimento ai protagonisti di quella disastrosa vicenda.
Il 24 ottobre 1917, alle ore 2 circa, ebbe inizio l’offensiva austro tedesca ma la vera “rotta” si verificò tra il 27 e il 28 ottobre, dopo che, la mattina del 27, Il Comandante Supremo Gen.le Cadorna si convinse, con notevole ritardo, di ordinare il ripiegamento sul Tagliamento.
La ritirata si rivelò una vera e propria disfatta e il Cadorna, annunciando l’accaduto, attribuì la colpa ai soldati della II Armata che, a suo giudizio, s’erano “vilmente ritiratisi senza combattere”.
Affermazione non vera, senz’ altro attribuibile alla discutibile mentalità allora regnante in seno all’Alto Comando.
Le responsabilità dell’accaduto vanno attribuite di fatto, al di fuori di ogni altra considerazione, alla mediocrità e alle beghe di potere e di carriera che diffusamente esistevano nell’ambito di parecchi esponenti del Comando Supremo.
Le Grandi Unità di prima linea, di contro, ove si escluda la particolare posizione di comando del XXVII Corpo d’Armata, al momento di pertinenza del discusso e ambiguo Gen.le Pietro Badoglio, erano quasi tutte agli ordini di validi e determinati Capi.
In tale contesto, la figura del Gen.le Luigi Capello (già comandante del VI C.d’A. e poi della 2a Armata) meriterebbe, a parte, una attenzione più esaustiva e obiettiva.
Sta di fatto che pagò abbastanza care le responsabilità a lui attribuite in sede d’inchiesta governativa e parlamentare pur se, a distanza di tempo e in base alla documentazione successivamente venuta alla luce, è oggi abbastanza chiaro il perché le principali “colpe” non fossero ascrivibili a lui.
Riccardo Posani (“La Grande Guerra” – SADEA SANSONI Editori – 1968 – vol.II° – pag..740) dice di lui che “l’abilità del Capello suscitava ammirazione e gelosie, quanto il suo carattere antipatie feroci o affetti ciechi”.
In merito a Caporetto nessuno può disconoscere, oggi, che se si fosse dato ascolto ai suoi suggerimenti, frutto di quella “particolare genialità nell’arte della guerra” riconosciutagli anche dagli avversari (fra cui il Maresciallo Hindenburg e l’austriaco Gen.le Conrand che a sue spese aveva dovuto costatarne la capacità nel corso della “sesta battaglia dell’Isonzo”), la tragedia di Caporetto avrebbe potuto essere evitata.
Il Gen.le Capello, infatti, avuto sentore dei preparativi avversari, aveva proposto, già in settembre, di lanciare “una offensiva preventiva” per scompaginare il nemico mentre era ancora in fase di preparazione logistica.
Il piano subito elaborato venne approvato ma non ebbe attuazione per le sopravvenute diverse valutazioni del Comando Supremo del Gen.le Luigi Cadorna il quale, in data 20 ottobre (appena quattro giorni prima dell’attacco nemico), decise di revocare l’ordine d’attacco e dispose che la 2a Armata del Gen.le Capello assumesse uno schieramento “esclusivamente difensivo”.
Il ritardo nell’esecuzione di quest’ultimo perentorio ordine divenne poi il principale “capo di accusa” a carico del Gen.le Capello e la Commissione d’inchiesta, per considerazioni più politiche che tecniche, non ritenne di tenere conto di quanto difficile fosse, in appena tre giorni, modificare l’assetto da “offensivo” a “difensivo” di un mastodontico apparato cui facevano capo una ventina di divisioni raggruppate in tre Corpi d’Armata, con un organico di circa 600 mila uomini.
Il voltafaccia di Cadorna era maturato a fronte di talune infondate informazioni che lo portarono a convincersi che “gli austro – tedeschi non avessero alcuna intenzione di attaccare sul Tolmino e che comunque non fossero in grado, per motivi logistici, di farlo prima del marzo successivo”.
Vedi caso, erano gli stessi “motivi logistici” che poi non sarebbero stati ammessi a discolpa di Capello.
Il Gen. Capello, parecchio a torto, era considerato dai suoi colleghi un “offensivista” e tale definizione non aveva certo un senso elogiativo.
L’errata interpretazione scaturiva dal fatto che lui fosse, quasi in solitudine, un convinto assertore di concetti operativi moderni e dinamici, parecchio diversi dalle decrepite concezioni della guerra di posizione.
Il suo fondamentale principio era quello di “difendersi attaccando e attaccare per primi, con azioni di ampio respiro, … per impedire che il nemico possa farlo a sua volta”.
Tali innovativi canoni di strategia militare disturbavano parecchio i “soloni” dell’Alto Comando più che altro dediti a privilegiare lo schema dei continui attacchi frontali, pur se essi determinavano la perdita di migliaia di uomini. Inutili massacri che, peraltro, non trovavano giustificazione nei limitati vantaggi territoriali il più delle volte consistenti solo in qualche “aggiustamento di fronte”.
Nel gergo della truppa, tale stato di cose aveva innescata la diffusione di patogene convinzioni quali quelle di “uomini mandati al macello”, “carne da cannone” “schiavi con le stellette”.
Termini il cui tragico significato rimbombava da un campo all’altro delle trincee ed esprimeva sdegno e riprovazione nei riguardi degli Alti Comandi che, con assoluta indifferenza, seguitavano a sfornare “ordini d’operazione” per l’assalto all’arma bianca.
ll pubblicista Franco Valombra, nella sapiente inchiesta “L’ottobre in cui tremò l’Italia” (apparsa nel 1967 – cinquantenario di Caporetto – per i tipi di un noto settimanale) ha scritto : -“I soldati di prima linea dovevano obbedire, combattere e morire senza discutere….” .
L’ecatombe di soldati, sottufficiali e ufficiali (questi ultimi “avevano l’obbligo di precedere i reparti”) sta a dimostrare quanto scarso rispetto s’avesse, in alto loco, per la vita umana.
A lungo andare non poteva non determinarsi il pernicioso crollo del morale della truppa pur se, nonostante le pesanti critiche avanzate da molti organi di stampa, oltre che da alcuni membri del Parlamento, l’atteggiamento del Comando Supremo non mutò.
Alla pari di molti colleghi di altre Nazioni (a ben ragione definiti “macellai”), il Gen.le Cadorna continuava ad essere sprezzantemente convinto che il destino dei soldati di prima linea fosse quello d’andare incontro al piombo nemico.
Lo scrisse, addirittura, in un suo libro.
Il Comando Supremo, pensando di porre rimedio al dilagante fenomeno dell’insubordinazione e, in taluni casi, dell’ammutinamento, fece ricorso, con criminale cinismo, alla prassi di “passare per le armi”, a fronte di sommari processi, interi reparti.
Ciò comportò il frequente sadico e criminale ricorso alle cosiddette “decimazioni”, un soldato tirato a sorte fra “dieci” militari dello stesso reparto..
——————-
Nel ricostruire il quadro degli avvenimenti che portarono al disastro di Caporetto, ci si accorge che quanto avvenne è in gran parte connesso con l’inqualificabile comportamento del neo Gen.le di Corpo d’Armata Pietro Badoglio
Egli, appena un anno prima portava sulle spalline solo i gradi di “colonnello”, mentre nell’ottobre del 1917, in virtù di tre avanzamenti acquisiti per chissà quali misteriose alchimie attuate in alto loco, era stato posto al comando del XXVII Corpo d’Armata, schierato sul Tolmino e che aveva alla sua sinistra, nella zona di Plezzo, il IV C.d.A. del Gen. le Cavaciocchi e alla destra il XXIV del Gen.le Caviglia .