Così l’impresa italiana potrebbe ripartire – l’analisi di un imprenditore, Giovanni Mangano


di Livio Mario Cortese

Giovanni Mangano, imprenditore, analizza le cause dell’attuale crisi delle imprese italiane, delineando possibili vie d’uscita.

Ricostruire l’eccellenza italiana”: il tema è arduo, ma non è una formula astratta quella di Giovanni Mangano, imprenditore nel settore sanitario. “Intanto si parte da un’idea falsata”, lamenta Mangano, “cioè dal presupposto che un datore di lavoro tenda ad approfittare degli operai, evada le tasse e non reinvesta gli utili”.

Quanto c’è di vero? “Beh, l’ ‘ansia di status’ accomuna moltissime persone, magari c’è chi non ha da mangiare ma insegue l’ultimo modello di smartphone… Ma molti imprenditori hanno gran parte dei beni  ipotecati e continuano a rischiare sperando di poter estinguere i debiti: gli stessi dipendenti li apprezzano”.

Sembra indubbia l’esistenza di meccanismi che generano prevenzioni da ambo le parti: non sono rare le vertenze a fini speculativi. Alla tradizione artigianale italiana guarda il dott. Mangano, individuando nei processi di delocalizzazione l’inizio del declino per le imprese nazionali: “Dagli ani ’80 tali soluzioni hanno portato vantaggi momentanei, soprattutto alleggerendo dalla pressione fiscale. Ma abbiamo sacrificato anche la qualità di prodotti che solo i nostri artigiani sanno mantenere alta”.

D’altronde, oggi, imprenditori cinesi investono nelle manifatture italiane, producendo in Italia –con operai connazionali- per poi vendere in patria. “Da qui dovremmo ripartire”.

Ma nella pratica?  “Sfruttare le competenze individuali e ciò che offre il territorio. Individualità e piccoli gruppi ci stanno riuscendo, operando nel ramo delle coltivazioni biologiche e nella maglieria di lusso, con manodopera italiana: del resto per gli italiani si tratta solo di manifestare capacità innate”.

Il piano economico, osserva l’imprenditore catanese, appare attraversato da una profonda mancanza di fiducia: “L’italiano medio non vuole pagare le tasse ai politici ritenuti ladri, questi lamentano la disonestà della popolazione. D’altronde gli economisti di sinistra –area alla quale peraltro mi sento di appartenere- sostengono che l’evasione fiscale sia sempre intenzionale, senza analizzarne le cause in dettaglio”.

Esclusa la malafede, il discorso è ampio: “Negli ultimi dieci anni gli enti pubblici tendono a non pagare gli imprenditori, mentre le banche tendono a privilegiare, rispetto al credito, l’aspetto finanziario maggiormente redditizio. Dal canto suo, la politica ha rinunciato ad occuparsi di regolamentare gli istituti di credito”.

A tali condizioni un cerchio sembra stringersi attorno all’imprenditoria: “C’è chi dichiara tutto ciò che deve pagare, ma poi non riesce: questo non è essere evasori, anche un Salvini l’ha recentemente affermato”.

Allora chi andrebbe perseguito? “Chi volutamente elude le tasse o si rifiuta di pagarle, magari creando aziende fantasma per accaparrarsi fondi comunitari”

Quale la via d’uscita possibile? “La fiducia, secondo me. Vedo un possibile accordo tra imprenditori onesti, che abbiano a cuore l’Italia e le sue eccellenze produttive. Cittadini, banche e governo devono cooperare assumendosi le proprie responsabilità”.

Alla luce di una tale analisi, Giovanni Mangano articola su due punti le proprie proposte: il primo riguarda la fiscalità: “Si riaprano i tempi di rottamazione delle cartelle esattoriali, con la possibilità –tolte tutte le sanzioni- di pagare il dovuto con un quinto del reddito personale o di azienda: questo ridarebbe ossigeno agli imprenditori, magari riducendo il tasso dei suicidi”. La pressione fiscale andrebbe poi ridimensionata relativamente alle aliquote applicate, l’IRPEF e soprattutto l’IVA: “Se la riducesssimo dal 22 al 15%” potremmo avere più liquidità, ma naturalmente dobbiamo fare i conti con tutto il gettito fiscale che serve per avere, per esempio, l’assistenza sanitaria gratuita. Un altro punto riguarda il condono bancario, fa ancora notare Mangano: “Oggi è prassi comune che una qualunque banca venda i propri crediti deteriorati ad altri istituti che li pagano tra il 10 e il 20% del proprio valore: questo serve a recuperare i crediti stessi. Ora, partendo dal presupposto che le banche dovrebbero dare ai cittadini una possibilità di salvezza e non certo affossarli…  proponiamo che queste banche, prima di vendere a terzi, diano ai cittadini l’opportunità di ‘acquistare’ i propri debiti al 5% del valore dato dalla banca che invece li acquisirebbe”. Di fatto questa procedure ridurrebbe di tre quarti tali debiti: su scala nazionale si può immaginarne l’effetto.