Cosa scrivono gli altri (IL FOGLIO QUOTIDIANO – BUIO SULLA MAFIA)


“Cosa nostra è sparita nel nulla”. Lo ammette Michele Santoro, che fu giornalista d’assalto e giustizialista. Ora comunque pentito
di Giuseppe Sottile · mag  2021

Ha trasformato Maurizio Avola, con un libro dal titolo spavaldo: “Nient’altro che la verità”, nel nuovo evangelista delle nefandezze mafiose L’altra sera il Grande giustiziere ha ripiegato la sua spada di fuoco ed è rientrato – usiamo questa immagine – nel morbido spirito del tempo “Non siamo stati forcaioli”, ha detto col bianco candore di un sonnambulo. E poi, a Libero, che ormai della mafia non sappiamo più niente Forse la colpa dell’appiattimento dei pentiti su storie di trent’anni fa è anche colpa di quei magistrati che li inchiodano sulla Trattativa
Lo chiameremo così: il pentito Santoro. Con lo stesso appellativo che le cronache giudiziarie hanno assegnato negli anni Ottanta a Tommaso Buscetta, il boss di mezza tacca che consentì a Giovanni Falcone di smantellare la cupola di Cosa Nostra; oppure a Gaspare Spatuzza, il picciotto di Brancaccio che con le sue rivelazioni sulla strage di via d’Amelio rase al suolo la messinscena di Vincenzo Scarantino, il balordo reclutato da un investigatore avventato, come il questore La Barbera, per impupare un processo senza capo né coda; oppure a Maurizio Avola, un catanese con ottanta omicidi sulle spalle, che proprio Michele Santoro ha trasformato – con un libro dal titolo spavaldo: “Nient’altro che la verità” – nel nuovo evangelista delle nefandezze mafiose, nel nuovo interprete dei misteri dolorosi della Sicilia, nel nuovo apostolo della famigerata Trattativa tra lo Stato e i sanguinari corleonesi di Totò Riina.
Le confessioni dell’ex killer non accendono più l’attenzione dei magistrati, nemmeno di quelli sempre pronti a riscrivere la storia d’Italia: dicono che ha sempre giocato su tre tavoli, che si è contraddetto mille volte e che ora risulta “sputtanato, infido e inaffidabile”. Al punto che la procura di Caltanissetta ha diramato una nota ufficiale per arginare il fiume delle sue illazioni, mentre Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo, dilaniato dal tritolo nell’attentato del 19 luglio del 1992, lo liquida senza riserve e senza possibilità di appello: “Di questo signore non parlo”, ha tagliato corto. “Di depistaggio ne abbiamo già subìto uno”, un altro sarebbe veramente troppo.
Ma a Santoro, vecchio santone della televisione, un po’ in disarmo e un po’ in cerca di resurrezione, il libro ha dato la possibilità di farsi un largo giro nei talk-show, di avere addosso le luci della ribalta, di battersi il petto per ogni eccesso e per ogni errore di valutazione, di rimarginare ferite e lacerazioni provocate dalle sue inchieste e dalle sue intemerate.
Bisognava vederlo nell’ultima passeggiata sul palcoscenico della notorietà. Bisognava vederlo soprattutto la sera in cui è stato invitato negli studi Mediaset, in quel mondo che lui, per una vita, aveva visto come l’impero del male e contro il quale, prima con “Samarcanda” e poi con “Moby Dick”, aveva combattuto fino all’ultimo respiro, da solo o in compagnia di Marco Travaglio; e comunque alla testa di un esercito di irriducibili giustizialisti, convinti che solo la spallata giudiziaria avrebbe potuto abbattere il tiranno chiamato Silvio Berlusconi.
Lo sostenevano, compatti come una falange, i compagni di Rai Tre. Lo portavano sugli scudi Angelo Guglielmi, direttore di rete, e Sandro Curzi, direttore del telegiornale. E lui – professionista di innegabile maestria – allestiva ogni settimana il Grande Teatro delle Assonanze. I magistrati preparavano la carne da mettere sul fuoco e lui soffiava sulla brace dell’opinione pubblica per arrostire l’inquisito prima di ogni sentenza. Le procure lanciavano un’ipotesi di reato e lui ci imbastiva in ventiquattr’ore un processo mediatico, una giostra di pupi e pupari, di funamboli e prestigiatori, di contorsionisti e acrobati del diritto. Antonio Ingroia, reverendissimo inquisitore di Palermo, reclutava un pataccaro come Massimino Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso, e lui ci dipingeva un giudizio universale, con i cavalli maledetti di Vittorio Mangano, stalliere e malacarne infiltrato ad Arcore, e con le trame oscure e dannate di Marcello Dell’Utri, manager e spalla di Sua Emittenza l’Uomo Nero ma anche longa manus dei padrini che da Palermo cercavano a Milano ricchezza e complicità.
Furori e ardori da dimenticare, comunque. Perché l’altra sera a “Quarta Repubblica”, davanti a Nicola Porro e Alessandro Sallusti, diaconi della grande chiesa berlusconiana, il Grande Giustiziere ha ripiegato la sua spada di fuoco ed è rientrato – usiamo questa immagine – nel morbido spirito del tempo. Ha detto che Berlusconi e Dell’Utri “certamente non sono stati i mandanti delle stragi”, come vorrebbe quella letteratura forcaiola che non si arrende davanti a nessuna archiviazione e a nessuna evidenza. “La mafia – ha sottolineato col tono suadente di un predicatore domenicano – non ha preso ordini da Berlusconi. La sua statura come politico è fuori discussione, al pari dei suoi giganteschi conflitti di interesse”.
Irriconoscibile, verrebbe da dire. Soprattutto quando Porro fa scorrere le immagini del settembre 1991, quelle dell’orgoglio antimafia messo in scena da Santoro e da Maurizio Costanzo subito dopo l’assassinio di Libero Grassi, l’imprenditore che si era ribellato alla mafia del pizzo. Davanti a una platea infuocata dall’indignazione, dal dolore e anche dalle prime lotte interne all’antimafia, Giovanni Falcone, che pure aveva sventrato con il maxi processo i santuari maleodoranti di Cosa nostra, finì paradossalmente sotto accusa per avere accettato l’incarico, offertogli dal ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, di direttore degli Affari Penali. Apriti cielo. I puri e duri dell’antimafia, affiliati alla confraternita gesuitica di Leoluca Orlando, sindaco ribelle di Palermo, gli rinfacciarono, davanti alle telecamere, di essersi piegato alla contaminazione del potere politico e di avere rinunciato alla sua libertà e alla sua indipendenza di magistrato. Il giudice cercò in tutti i modi di fare valere le sue ragioni e di spiegare che quell’incarico sarebbe stato prezioso per definire le strategie dello Stato contro lo strapotere dei boss. Ma non ci fu verso. Perché il dibattito si trasformò presto in un linciaggio che i due conduttori non seppero o non vollero bloccare. Otto mesi dopo Falcone sarebbe saltato in aria sull’autostrada di Capaci, con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini di scorta. Ma le lacrime e il cordoglio per la morte dell’eroe non riuscirono a ripulire quella serata dalle scempiaggini diffuse a piene mani dai fanatici sulla scelta e sulle intenzioni del giudice coraggioso.
Santoro – bisogna riconoscerlo – si mostra, anche davanti alle imbarazzanti immagini riproposte da Porro, pentito e costernato. “Pensavo che Falcone si fosse lasciato strumentalizzare dal Palazzo e da Andreotti, ormai non più organico alle cosche mafiose. Ho sbagliato”, ammette.
Il pentimento, si sa, ha pur sempre un risvolto di nobiltà. Quando Sallusti gli ha ricordato di avere contribuito non poco, con le sue trasmissioni e le sciabolate di fango, ad alimentare il clima di odio e di rancore verso la politica – clima che sarebbe poi sfociato nell’avanguardismo grillino – l’ex conduttore di “Samarcanda” si è limitato a una risposta che avrebbe richiesto forse una maggiore pacatezza e un più assennato approfondimento. “Però non siamo stati forcaioli”, è riuscito a puntualizzare col bianco candore di un sonnambulo.
Ma a che servirebbe spaccare il capello in quattro per verificare la sincerità di un ravvedimento? Forse sarebbe molto più opportuno soffermarsi su una sottolineatura che Michele Santoro, dall’alto della sua esperienza tra carte giudiziarie e cose di Cosa Nostra, ha fatto non solo a “Quarta Repubblica” ma anche in una intervista a Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Ha detto che ormai della mafia non sappiamo più niente, che le ultime notizie conosciute risalgono a quasi trent’anni fa, ai giorni tragici delle stragi e alla cattura di Totò Riina, il capo dei capi, messa a segno dal colonnello Mario Mori nel gennaio del ’93 alla Circonvallazione di Palermo.
Già, che cosa è rimasto della mafia? Quali strade hanno intrapreso le cosche, le famiglie, i boss e i picciotti sopravvissuti al rullo compressore di Falcone e Borsellino? Che ne è stato dei complici e dei collusi, dei fiancheggiatori e di tutti i mascalzoni che si sono rintanati nel mondo di mezzo tra legalità e malavita, tra doppiopetto e criminalità? Non ci sono risposte. Se volessimo usare una vecchia espressione cara ai cronisti di nera potremmo dire che brancoliamo nel buio.
Ma chi ci avrebbe dovuto raccontare le ultime evoluzioni di un’organizzazione criminale così potente da condizionare non solo l’economia, ma anche e soprattutto la politica? Ovviamente gli apparati, che sono tanti e raggruppano uomini di alto livello. Solo che le ultime cronache giudiziarie ci raccontano una mafia che per capo della Cupola ha scelto un vecchio arnese di 84 anni, Settimo Mineo, già bruciato da vecchie inchieste e carcerazioni, e per di più subito trasferito al regime carcerario 41 bis dove è difficile comandare e anche sopravvivere. Oltre questa cupola un po’ stracciona ci sono cosche sparse qua e là che rimediano la mille lire con taglieggiamenti, estorsioni e bassa macelleria. Al di sopra delle quali però troneggia il mito e la mitomania di Matteo Messina Denaro, l’unico boss, da sempre latitante, che può vantare una statura simile a quella di Totò Riina e che, stando ai fascicoli giudiziari, ha preso parte con alti gradi di comando alle stragi e ai delitti degli anni scellerati. Ma il padrino di Castelvetrano non si riesce a catturare. Ogni settimana finiscono dietro le sbarre parenti e portaordini ma lui, la primula rossa, sfugge a ogni agguato. Forse è addirittura morto, o fuggito all’estero. Chissà. L’unica certezza è che la sua storia, la sua latitanza e i suoi processi danno alla mafia una tinteggiatura di invincibilità che Settimo Mineo e la sua cupola scalcagnata ormai non possono più assicurare.
Una ricognizione aggiornata degli intrighi, degli affari e degli intrecci mafiosi potrebbero comunque darla i pentiti, che tra l’altro sono anche pagati per questo. Ma gli ultimi chiamati a deporre nelle aule dei tribunali sembrano provenire da una covata di imbroglioni, sulla falsariga di Maurizio Avola, il killer degli ottanta omicidi, chiamato a conversare, nel libro di Santoro, sui massimi sistemi, persino sul bene e il male della giustizia. Altro che Buscetta e gli altri uomini di onore che hanno rivelato a Falcone e ai giudici dell’aula bunker la struttura portante di Cosa Nostra, con le sue gerarchie e i suoi affiliati. Quelli di oggi somigliano tanto a dei saltimbanchi che hanno scambiato il servizio di protezione con il reddito di cittadinanza, che dicono e si contraddicono, che insinuano e alludono, che ammiccano e balbettano; ma che hanno imparato soprattutto l’arte di assecondare i desideri dell’ultimo pubblico ministero in cerca di un dettaglio clamoroso, e di un’ipotesi di reato da trasformare in un colpo d’ala verso il successo, roba da titolo a nove colonne in prima pagina.
Forse la colpa dell’appiattimento dei pentiti su storie di trent’anni fa è anche colpa di quei magistrati che li inchiodano sulla Trattativa, diventata fin dal 2009, anno in cui il pataccaro Ciancimino viene trasformato da Ingroia in icona dell’antimafia, un cavallo di battaglia da utilizzare perinde ac cadaver non solo per annientare Silvio Berlusconi ma anche per spargere una coltre di sospetto sui principali palazzi romani, primo fra tutti il Quirinale al tempo di Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, e sui ministeri degli Interni e della Giustizia che, al tempo delle mattanze palermitane, erano guidati da Nicola Mancino e Giovanni Conso. Prendete Pietro Riggio, chiamato a deporre sulla strage di Capaci. Attribuisce la regia dell’attentato a un ex poliziotto, Giovanni Peluso – servizi deviati, va da sé – e dice che lo vide arrivare a bordo di una Bmw, della quale annotò il numero di targa. Parte la verifica e si scopre che quella targa apparteneva a un trattore. Oppure prendete lo stesso Avola il quale, pur di irrompere nel teatro delle storie infami con una recita a soggetto, racconta di avere piazzato con le sue mani il tritolo nella Fiat 126 esplosa sotto l’abitazione di Paolo Borsellino e precisa pure, a differenza di altri pentiti, che in via D’Amelio, nel cuore di Palermo, non c’era traccia dei servizi segreti. Ma gli investigatori accertano che il giorno prima dell’attentato il killer era a Catania con un braccio rotto e ingessato. Come avrebbe mai potuto traccheggiare con dodici candelotti di esplosivo? Oppure prendete Nino Lo Giudice detto “il nano”, o Consolato Villani, altri maratoneti dell’impostura, che entrano ed escono dal servizio di protezione con la facilità e la sicumera degli avventori di un bar.
I pentiti non sanno più cosa dire. Ma agli apparati, per mantenersi in piedi, basta tenere alta la tensione dell’emergenza e coltivare il fantasma di Matteo Messina Denaro.
Ha ragione Michele Santoro. “Cosa Nostra è sparita nel nulla, noi non sappiamo che cosa è diventata”.