Le premesse di trasformazione sono esplicite. Se proprio si deve cercare “un’anima” si sappia che questa non te la dà nessuno e non la cerchi fuori di te. Sta nei valori (progressisti), nel metodo (riformista) e nel comportamento (di radicalità). E si arma del «cacciavite». Non poteva scegliere un attrezzo più simbolico, Letta. Il cacciavite fissa viti e bulloni, ma svita e scardina anche. Un attrezzo che svolge una funzione destruens e una construens .
Da queste funzioni ricava il messaggio al partito. Circa lo scopo costruttivo: la strategia è dar vita a un campo di centrosinistra. La radice prodiana, non la vocazione maggioritaria: il dado è tratto. Così ci si prepara al dopo Draghi. Ma per farlo, occorre che il partito non sia come quello che è oggi – intimorito dalle elezioni e (o forse perché) preda di laceranti divisioni.
Visto da fuori, il Pd non è un bel partito, ha detto Letta. La sua geografia interna è incomprensibile ai non adepti. Le fazioni sono un male; paralizzano e danno a chi sta fuori l’impressione di un aggregato di oligarchie, di concentrazione di affari e politica. E cita Jean-Paul Sartre: l’identità è per metà quel che siamo e per metà l’immagine che di noi ci restituiscono gli altri.
L’azione construens avrà successo a condizione che le bande vengano disarmate – non sarà sufficiente un armistizio. Vi è un modo classico per disarmare i pochi: allargare il campo della partecipazione.
Letta dice che una «nuova forma partito» passa attraverso la democratizzazione mediante (anche) il digitale, la prossimità ai luoghi di lavoro e di vita dei cittadini e la riattivazione della discussione politica (non fa riferimento alla riforma dello statuto).
Un partito di «volti» invece che di «maschere», di attivisti invece che di aspiranti a posti. Più che quello di un segretario sembra il programma di un costituente.
Nadia Urbinati
politologa