Cosa scrivono gli altri (Corriere della Sera – LA FERITA APERTA E LE MACERIE DI UNA SOLIDARIETÀ PERDUTA)


L’America che oggi celebra il ventesimo anniversario dell’attacco terroristico è un Paese esausto, provato dalla pandemia, attraversato da una spaccatura profonda
di Massimo Gaggi

Oggi si celebra il ventesimo anniversario dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 è un Paese esausto, consumato dalla guerra più lunga della sua storia: un conflitto durato vent’anni, combattuto da padri e anche da molti dei loro figli. Ma è anche un Paese diviso, attraversato da una spaccatura profonda. La figura tragica di Rudy Giuliani ne è un simbolo: il sindaco acclamato da tutti come un eroe sulle rovine fumanti dell’11 settembre, l’«uomo dell’anno» celebrato sulla copertina di Time, divenuto un sobillatore dell’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, una minaccia per la stabilità della democrazia americana. La pandemia, l’emergenza di oggi, anziché unire gli Usa come contro Al Qaeda, alimenta conflitti: addirittura un clima da guerra civile con molti che invitano alla rivolta contro gli obblighi vaccinali annunciati dal presidente Biden. E il Congresso, probabile bersaglio del terzo aereo dei terroristi del 2001, quello che precipitò in Pennsylvania, viene avvolto di nuovo da reticolati per il timore di attacchi. Non di jihadisti ma di ultrà di destra che manifesteranno a Washington sabato prossimo.
«Vado in Afghanistan affinché mio figlio un giorno non debba combattere questa stessa guerra». Quando, nel 2002, il sergente maggiore Trevor deBoer rispose così a chi gli chiedeva perché si fosse offerto come volontario non immaginava che 17 anni dopo il figlio Payton sarebbe stato dislocato dall’esercito nella stessa base afghana nella quale lui iniziò la sua missione. Con una guerra durata quanto una generazione, i casi come quello della famiglia deBoer sono innumerevoli e illustrano bene la «fatica della guerra», la voglia di molti americani di ritirarsi dal mondo, il senso latente di frustrazione che incombe sulle celebrazioni del ventesimo anniversario dell’attacco terroristico di Al Qaeda.
La ferita di quel giorno tremendo non si è mai rimarginata e ha spinto, più o meno consapevolmente, un popolo che ha sempre vissuto di immigrazione e relazioni intense con tutti i Paesi a chiudersi progressivamente in una logica da «fortezza America». L’America generosa venuta a salvare l’Europa nelle due guerre mondiali, quella del piano Marshall, non è svanita del tutto, ma allora la gente sentiva di aver fatto qualcosa per quelli che per molti di loro erano i Paesi d’origine: c’era il richiamo delle radici e c’erano sensibilità, valori e culture comuni. Ricambiati dalla riconoscenza del Vecchio Continente nei confronti del Nuovo Mondo.
Niente di tutto questo si è ripetuto nelle guerre del Golfo e dell’Asia Centrale: Paesi lontani, tribali, incomprensibili. Come incomprensibile per i più era stato l’attacco a freddo alle Torri Gemelle e al Pentagono organizzato da gente venuta da un Paese alleato, l’Arabia Saudita.
Ma quelli della guerra infinita non sono stati solo vent’anni che hanno sfinito l’America togliendole la voglia di combattere, di continuare a interpretare il ruolo di gendarme del mondo cadutole addosso alla fine degli anni Ottanta col crollo dell’impero sovietico. Sono stati anche anni di crescenti divisioni nei quali il Paese ha perso quel poco di compattezza che aveva recuperato proprio sotto i colpi del terrorismo.
La radicalizzazione delle divisioni politiche era già iniziata coi durissimi attacchi dello speaker repubblicano del Congresso, Newt Gingrich, alla presidenza di Bill Clinton e, poi, con l’elezione di George Bush dopo un contestato testa a testa con Al Gore. Ma l’offensiva di Al Qaeda, oltre a spingere mezzo mondo a dichiarare «siamo tutti americani» aveva ricompattato il Paese. Oggi, in un’America che discute più di vaccini che dalle modalità del ritiro da Kabul, l’unico che va in prima pagina parlando di Afghanistan è l’ex (e forse futuro) presidente Donald Trump. Che, però, lo fa in modo bislacco: non parla del ritiro, peraltro avvenuto sulla base di accordi che lui ha promosso, fortemente voluto e siglato, ma della rimozione a Richmond, in Virginia, della statua del generale confederato Robert Lee: un momento delle guerre culturali in corso in America che può essere discutibile dal punto di vista della conservazione della memoria storica. Ma l’ex presidente lo sfrutta per fare l’elogio di un uomo che ha combattuto per difendere lo schiavismo aggiungendo poi, con una delle sue tipiche sortite surreali, che, fosse vissuto ai giorni nostri, sicuramente Lee avrebbe vinto la guerra in Afghanistan.
Surreale, ma gradito ai suoi fan. L’America di oggi è anche questa: frastornata da due decenni di guerre inconcludenti che l’hanno indebolita politicamente, economicamente e moralmente, ma anche divisa tra il desiderio di commemorare i suoi caduti, provare a convincersi che le vittime dell’11 settembre e i 6.650 morti americani in Iraq e Afghanistan non si sono sacrificati invano e il prosciugamento dell’empatia prodotto in modo strisciante dall’effettoTrump, con la sua convinzione che chi muore in battaglia è un loser, un perdente. Veterani in rivolta contro di lui? Macché. Anzi, a riempire le file delle milizie paramilitari, le più vivaci contestatrici della regolarità dell’elezione di Biden, sono proprio molti reduci dalle due guerre che, frustrati dal rientro nella vita civile, spesso disadattati o disoccupati, hanno cercato la fuga nelle teorie cospirative più fantasiose e trovato rifugio nel populismo rude e bellicoso di Trump. Vent’anni fa l’America si blindava per proteggersi dalla minaccia di altri attentati jihadisti. Oggi quella minaccia non è dimenticata, ma, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, preoccupa di più il rischio di ribellioni interne.
La distanza tra queste due Americhe la vedremo oggi anche nei comportamenti di presidenti ed ex presidenti americani: mentre Barack Obama e George Bush, oltre a Biden, parteciperanno alle commemorazioni dei caduti, Trump in Florida si divertirà a fare il telecronista di un incontro di pugilato tra vecchie glorie, ormai cinquantenni, dei pesi massimi.

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