Cosa prevedeva la legge Scelba?


Il 23 giugno del 1952, la “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” annunciò che la Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica avevano approvato, e il Presidente della Repubblica promulgava, la legge che all’articolo 1, relativo alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, recitava:

Ai  fini  della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della  Costituzione,  si  ha  riorganizzazione  del disciolto partito fascista  quando  una  associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la  democrazia,  le  sue  istituzioni  e  i valori della Resistenza o svolgendo  propaganda  razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione  di  esponenti,  principii,  fatti  e  metodi  propri del predetto  partito  o  compie  manifestazioni  esteriori  di carattere fascista.

Tornare sulla cosiddetta Legge Scelba, però, rappresenta per noi, innanzitutto, la possibilità di tornare su qualche decennio di conflitto e di gestione dell’ordine pubblico in Italia, una gestione indissolubilmente legata al nome di Mario Scelba appunto.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, una guerra che l’Italia aveva perso, salvo poi guadagnare uno status particolare grazie alla Resistenza, regnava l’anomalia di un paese che aveva scelto di stare nel solco della Nato, ma ospitava il più grande partito comunista dell’Occidente.

Ciò avveniva naturalmente sulla scia della radicalizzazione dell’ordine bipolare a livello internazionale, mentre negli Stati Uniti d’America, sempre di più a partire dalla fine degli anni Quaranta, si stava diffondendo il Maccartismo, un atteggiamento diffuso caratterizzato da un esasperato clima di sospetto nei confronti di persone e di gruppi ritenuti comunisti e sovversivi. Veniva chiamato maccartismo dal nome del senatore J.R. McCarthy, che dirigeva una commissione per la repressione delle attività antiamericane e faceva porre sotto vigilanza centinaia di persone, attaccandole pubblicamente con accuse non dimostrate, a tutti i livelli della società (nella politica, nella cultura, nello spettacolo…).

In Italia, le forze di polizia erano già state epurate nel 1948 dalla presenza degli ex-partigiani, che rappresentavano probabilmente circa un terzo degli effettivi, ciò che rispondeva a un’esigenza professionalizzante delle forze dell’ordine, oltre che a un’esigenza politica.

Negli stessi anni, attorno al 1950, anno in cui si cercò, con molto alterne fortune, di modernizzare l’agricoltura italiana con la Riforma Agraria, più volte i contadini del mezzogiorno marciarono sui latifondi, e più volte, su pressione dei rappresentanti locali della Democrazia Cristiana per un intervento energico del Ministero degli Interni, l’esito fu che la polizia sparò sui manifestanti causando morti e feriti.

Gli eccidi consumatisi in quei mesi e anni in Italia non furono soltanto episodi, come gli storici hanno ben ricostruito, a cominciare da Paul Ginsborg recentemente scomparso, ma una precisa strategia di gestione dell’ordine pubblico.

La legge Scelba coronava questa prassi dell’esponente democristiano e puntava dritto alla salvaguardia dell’ordine sociale costituito, e il richiamo alla ricostituzione del Partito Fascista rappresentava l’esito delle mediazioni politiche dentro e fuori dalla Democrazia Cristiana (in particolare grazie all’incessante lavoro in tal senso di Alcide De Gasperi), senza pertanto dimenticare che poteva diventare un grande strumento di contenimento delle pressioni eversive o rivoluzionarie, a destra come a sinistra.

In Italia, all‘inizio del 1954, quindi circa un anno e mezzo dopo la pubblicazione della Legge Scelba, il governo Pella cadde e, dopo un breve governo Fanfani, Mario Scelba fu chiamato a formare un nuovo esecutivo, in cui assunse anche il ruolo di ministro dell‘Interno. Questo governo si caratterizzò per una «ripresa su vasta scala dell‘offensiva anticomunista». Come ha scritto Ilenia Rossini, in generale questa nuova ondata di anticomunismo aveva avuto impulso dall‘amministrazione Eisenhower ed era basata sulla risoluzione del National Security Council dell‘aprile 1954 che, “interpretando il comunismo come quinta colonna, evidenziava l‘esigenza di un‘azione più diretta e aggressiva di contrasto nei confronti del PCI e sul superamento dell‘equiparazione tra neofascismo e comunismo”. La nuova ambasciatrice in Italia Clare Boothe fu mediatrice spregiudicata di questi orientamenti, e affiancò a una costante pressione sul governo perché abbandonasse le cautele degasperiane contro il PCI un crescente sostegno all’anticomunismo liberale che tante fortune incontrava ormai anche nel mondo padronale.

Fu così lanciato, come ha ricostruito Rossini, “in modo ormai quasi anacronistico,
un nuovo allarme sulla minaccia comunista contro la democrazia: di misure contro i comunisti si parlò nei consigli dei ministri del 18 marzo, del 30 novembre e del 4 dicembre 1954, oltre che del 16 marzo 1955. Deciso a restringere gli spazi di manovra del Pci e a ridurre almeno in parte il suo radicamento sociale, il governo si lanciò in un‘accanita campagna per il recupero allo Stato di tutti quegli edifici, già di proprietà del partito fascista o di altri organismi del regime, come le ex case del fascio, passati per lo più, dopo la liberazione, in possesso di organizzazioni sindacali, federazioni di partito, strutture associative, soprattutto della sinistra. Ecco allora la lunga serie di sfratti imposti a Camere del lavoro, case del popolo, organizzazioni di partito, segnati da fasi di tensione anche acuta, con largo impiego della forza pubblica, manifestazioni di protesta e scioperi, sia spontanei che organizzati. L‘apice di questa nuova ondata anticomunista fu toccato il 4 dicembre 1954, quando il Consiglio dei ministri approvò una serie di misure amministrative proposte da Scelba «per la difesa delle istituzioni democratiche e per il ristabilimento della legalità».

Durante la riunione, Scelba affermò che, poiché «il P.C. opera contro la democrazia e lo Stato democratico servendosi dell‘appoggio di una potenza straniera», contro di esso «ogni provvedimento diventa logico”

 

Il nuovo ministero di Scelba affiancò all’anticomunismo una riorganizzazione complessiva della gestione dell‘ordine pubblico.

 

Si era nel pieno di una lunga fase di instabilità politica che si sarebbe interrotta soltanto con i primi governi di centrosinistra a partire dal 1962, mentre in Italia affioravano nuovi soggetti sociali, rappresentati innanzitutto dalle masse sradicate dalle campagne a causa del fallimento della riforma agraria del 1950, che aveva appunto fallito nel favorire la transizione capitalistica dell’agricoltura e la formazione di una solida classe media agricola. Tutto ciò alimentò l’impressionante crescita del proletariato cittadino – soprattutto nelle tre città del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova) – e dei nuclei operai tradizionali, che furono trasformati nella loro composizione qualitativa e quantitativa dall’arrivo dei nuovi operai “massa” dal sud, con l’esplosione della nuova conflittualità che si manifestò in modo fragoroso a Piazza Statuto e con le magliette “a strisce” nel 1962.

 

Le crescenti inquietudini e la conflittualità sociale furono negli anni Cinquanta contrastate dallo Stato con la repressione, con il crescente impiego della celere nelle piazze italiane e la riorganizzazione delle destre, fino al governo Tambroni a partire dalla primavera del 1960. Questa scelta, però, acuì la tensione nel paese, il cui massimo fu rappresentato dagli scontri del luglio 1960, connessi al famigerato congresso del Movimento Sociale Italiano (il partito neofascista mai toccato dalla Legge Scelba) a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza che non accettò la presenza del partito di destra in città.

 

Fonte: fondazionefeltrinelli.it/