COSA NON È ISRAELE


Di Aldo Cazzullo

L’antisemitismo esiste, cresce, e va riconosciuto e combattuto. Esiste nell’estrema sinistra e nell’estrema destra (molto più numerosa, basti pensare alle curve di alcuni stadi). Esiste anche nei cortei pro-Palestina: se non è antisemitismo strappare la bandiera di Israele, cioè disconoscerne l’esistenza, che cosa è?
Tuttavia non possiamo additare in blocco come antisemiti i liceali e gli universitari italiani, come qualcuno tenta di fare. Sarebbe ingiusto e non aiuterebbe a riconoscere e a combattere l’antisemitismo, quello vero.
Dietro molte tra le critiche a Israele, oltre alla sincera pietà per i civili di Gaza, c’è la critica all’Occidente, e in particolare al colonialismo, alla sua storia, alla sua eredità. Un’attitudine non nuova. In odio all’Occidente, nelle piazze dei primi Anni 70 i giovani di estrema sinistra inneggiavano a Pol Pot e a Mao, che nel frattempo stavano massacrando milioni di loro connazionali. La critica all’Occidente era già da tempo un classico del pensiero dell’estrema destra, refrattaria all’idea della democrazia e dell’uguaglianza tra gli uomini.
L’attitudine che prevale oggi, nei campus anglosassoni ma anche in molti licei e università italiani, è la critica al retaggio del colonialismo.
Eanche qui occorre distinguere tra gli eccessi ideologici — a cominciare dalla follia di abbattere le statue di Cristoforo Colombo — e l’inevitabile ripensamento del nostro passato. Carlo III in Kenya chiede perdono «per le malefatte del colonialismo», Scholz fa lo stesso con la Tanzania — nata dall’unione tra Zanzibar e Tanganica, colonia tedesca sino alla prima guerra mondiale —, Macron nella campagna elettorale del 2017 andò in Algeria e definì il colonialismo un «crimine contro l’umanità». Non stiamo parlando di estremisti dei centri sociali, ma del re d’Inghilterra, del Cancelliere tedesco, del presidente della Repubblica francese. E in effetti i morti della guerra d’Algeria si contano a centinaia di migliaia, quelli del colonialismo belga in Congo a milioni (noi italiani, si sa, siamo brava gente: le decine di migliaia di vittime in Libia e in Etiopia sono del tutto assenti dalla memoria nazionale, anzi abbiamo eretto un mausoleo al «governatore di Addis Abeba» Graziani, che fece massacrare i monaci cristiani di Debra Libanòs). Certo, la storia non è solo contabilità funebre. Perché ragionando così allora si dovrebbe ricordare che gli inglesi tenevano l’India con eserciti composti in buona parte da soldati indiani, e il massacro di Amritsar dove il 13 aprile 1919 il generale Dyer aprì il fuoco sui civili — «una cicatrice vergognosa» ha detto la premier conservatrice Theresa May — è una goccia nel mare di sangue versato da hindu e musulmani nei giorni della Partizione; anche se i critici a oltranza del colonialismo direbbero che pure quelle stragi furono una conseguenza dell’occupazione. Ma se oggi l’India si afferma come grande potenza, è anche grazie alla lingua del colonizzatore, l’inglese, che fa da lingua franca al subcontinente e lo mette in comunicazione con il mondo globale. Il dibattito insomma potrebbe proseguire all’infinito.
Quel che è importante oggi, per confrontarci con i nostri giovani e per affinare la nostra capacità di lettura della guerra di Gaza e della questione israelo-palestinese, è ribadire che la storia di Israele non è una storia di colonialismo. Gli studenti pensano Israele come l’avamposto dell’Occidente, e in un certo senso lo è; ma per fortuna, visto che rappresenta un’isola di democrazia, dove i governanti vengono liberamente criticati quando sbagliano, come accade ora a Netanyahu. Soprattutto, la nascita di Israele è cosa ben diversa dal colonialismo. Gli ebrei arrivarono in Medio Oriente da profughi. Scampati ai pogrom nell’Europa dell’Est. Sopravvissuti alla Shoah. La potenza coloniale, in quel momento l’Inghilterra, tentava di ostacolare il loro sbarco, e non a caso fu attaccata dai combattenti ebrei, a volte con metodi terroristici. Poi certo dopo vennero gli insediamenti dei coloni a Gaza, che sono stati smantellati, e in Cisgiordania, che invece con Netanyahu sono stati incentivati; ma questa è un’altra storia.
Ripensare il proprio passato, discuterne liberamente, è indice di cultura critica e di maturità. È tipico insomma delle democrazie e dei loro principi, tra cui la libertà di insegnamento. L’odio di sé, l’incertezza sui propri valori, è invece segnale di debolezza: perché la libertà e la democrazia non si potranno esportare con le armi, soprattutto se offerte come paravento di un’egemonia economica e militare; ma la libertà e la democrazia restano molto meglio di oppressione e tirannide. Oltre che dell’intolleranza religiosa che anima Hamas e i suoi alleati iraniani. E dell’aggressività di quello che è oggi il vero colonialismo: non quello occidentale, ma cinese e russo. La Cina opprime le minoranze tibetane e uigure, compra porti e terre in Africa, Asia, financo Europa, strappa concessioni e monopoli. La Russia interviene in Siria e in Libia, dove è molto attiva la Turchia di Erdogan, che vagheggia di riportare la propria influenza su tutte le antiche province dell’impero ottomano. Se ci sono oggi cannoniere al largo delle zone di crisi, non battono solo la bandiera dell’Occidente.

Fonte: Corriere