Di Vittorio Sangiorgi (Direttore del Quotidiano dei Contribuenti)
Sono 112 su 223 i boss mafiosi scarcerati durante l’emergenza Coronavirus che, a circa quattro mesi dalla fine della quarantena, non hanno fatto ritorno dietro le sbarre ma sono ancora ai domiciliari a causa del rischio contagio. Praticamente la metà, alcuni dei quali identificabili come elementi di spicco delle varie organizzazioni criminali.
A riaccendere il dibatitto sul controverso tema, che dopo un’iniziale fase di silenzio è balzato agli onori della cronaca grazie ad una serie di importanti e coraggiose inchieste giornalistiche, un articolo de “la Repubblica”, che mette nero su bianco nomi e numeri dei malavitosi ancora in regime di arresti domiciliari. Tra di loro Pasquale Zagaria, “ministro dell’Economia” del cla dei casalesi e fratello del super boss Pasquale; Giuseppe Sansone, ex vicino di casa di Totò Riina, accusato di essersi speso per la riorganizzazione di Cosa Nostra; Gino Bontempo, massimo esponente della Mafia dei Nebrodi dedito ai rapporti con i colletti bianchi ed all’indebita attribuzione dei fondi europei; Diego Guzzino, ex autista del capo mandamento di Caccamo Intile, protagonista di una scalata ai vertici dei clan provinciali.
Nel loro caso, dunque, non è servito il decreto emanato, a metà maggio, dal Ministro della Difesa Alfonso Bonafede per arginare le scarcerazioni e, conseguentemente, spegnere la polemica politica che aveva anche portato a varie richieste di sfiducia nei suoi confronti. Dal Ministero, tuttavia, sempre secondo quanto riferisce “la Repubblica”, si sottolinea che: “Altri 111 hanno fatto già rientro in istituto penitenziario ed è un risultato importante, il meccanismo del decreto si è rivelato decisivo perché, rispettando l’autonomia dei giudici, li ha chiamati a riconsiderare tutti i provvedimenti di scarcerazione e ha consentito di fare rientrare in carcere i boss più pericolosi”.
Si tratta, chiaramente, di una vicenda complessa, nella quale entrano in gioco, oltre al guardasigilli, anche i vari giudici che hanno disposto le scarcerazioni e uffici come il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), finito anch’esso nell’occhio del ciclone per “l’affare Di Matteo”. Le responsabilità di quanto avvenuto e dei rischi connessi, dunque, sono da ricercare in un sistema più che nel classico capro espiatorio. Va da se, comunque, che chi occupa ruoli apicali nelle istituzioni è soggetto a maggiori oneri e deve agire di conseguenza. É perciò necessario che, tutte le parti in causa, agiscano nel più breve tempo possibile per riportare dietro le sbarre coloro i quali lì,e solo lì, meritano di stare.
La scarcerazione di boss mafiosi, alcuni dei quali addirittura condannati al 41 bis, può essere letta da alcuni come un’espressione dello stato di diritto ma, d’altra parte, se malamente gestita com’è purtroppo avvenuto in Italia, può altresì rappresentare un successo per il distorto messaggio dell’invincibilità mafiosa contro la legge, lo stato, la giustizia.