di Pasquale Pasquino
Uno dei fiumi carsici del dibattito costituzionale italiano che riemerge di tanto in tanto riguarda la possibile introduzione dell’opinione dissenziente o separata per le sentenze della nostra Corte costituzionale.
Le corti di giustizia nei sistemi detti di civil law producono in genere decisioni che sono espressione del collegio giudicante e sono caratterizzate dal segreto della deliberazione. Questo accade anche per alcune corti costituzionali come la prima, quella austriaca, la cui origine fu in misura molto rilevante dovuta al concreto contributo di Hans Kelsen, e, dopo la Seconda guerra mondiale, per quella italiana, quella francese, quella belga e poi anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea, e nei primi due decenni anche quella tedesca. A differenza delle corti che si ispirano al modello inglese, che si ritrova anche nella struttura del giudiziario federale americano. Non vi è dubbio che un ruolo importante se non decisivo (se si guarda alla maggior parte degli argomenti a favore dell’opinione dissenziente) è svolto dal riferimento alla più nota e più importante corte che pratica con abbondanza (in quasi tutte le decisioni più importanti) la pratica di opinioni separate (dissenzienti o anche concorrenti, con l’opinione di maggioranza e con quelle di minoranza). Pochi ricordano peraltro che i membri della Corte Suprema sono nominati a vita e nessuno può sospettare che abbiano attraverso l’espressione delle posizioni di ciascuno mire e attese a posti e benefici una volta fuori della istituzione nella quale hanno uno statuto di perennità simile a quello di Putin, costretto peraltro alla finzione di una rinnovata legittimità elettorale. Ciò fa pensare che già per questa ragione assumere il modello americano non è così semplice in un ordinamento nel quale i membri delle nostre corti sono nominati (ormai anche abbastanza giovani), come ad esempio in Italia, per nove anni, e non come in America “finché la morte non li separi” dalla istituzione nella quale siedono anche lì sempre più giovani che in passato.
Le ragioni addotte in difesa delle opinioni separate: la trasparenza, il pluralismo, il valore di precedente delle opinioni dissenzienti non sembrano sufficienti a squalificare il rifiuto di questa pratica e per quanto riguarda l’Italia il mantenimento dello status quo. È quel che suggerisce, invece, Nicolò Zanon nel suo recente scritto, Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale. Dieci casi (Zanichelli, 2024), che richiederebbe una ben più ampia disamina di quella che si può leggere qui di seguito, anche perché fa soprattutto riferimento alla esperienza della Corte Suprema americana, che mai come oggi gode della più bassa reputazione della sua storia, da quando esistono dati in proposito.
La trasparenza rende difficili i compromessi e trasforma la Corte in un micro-parlamento irresponsabile dinanzi ai cittadini. L’assenza di un possibile pubblico dissenso è un incentivo a favore della ricerca di una opinione condivisa. Il dissenso conta se ci si rivolge ad un pubblico che potrà (col voto, per esempio, come accade grazie alle elezioni) favorire l’una o l’altra parte. Una opinione separata, al di là del carattere spesso tecnico della stessa, non potrà certo essere rivolta ai cittadini perché la sostengano. Sarebbe invece più utile per il rapporto fra la Corte costituzionale e i cittadini interessati ampliare le informazioni relative alle sentenze più importanti, spiegate con un linguaggio meno tecnico, come fa il Conseil constitutionnel francese. È una illusione elitista pensare che cittadini ordinari, quelli che non hanno studiato giustizia costituzionale, possano leggere e farsi una loro opinione sulla sentenza di maggioranza e l’eventuale dissent.
Sostenere poi il valore di precedente dell’opinione separata dipende soprattutto da una superficiale analogia con la storia ideologica della Corte Suprema americana. È stata la lotta degli African-Americans e di Martin Luther King che ha permesso di rovesciare dopo quasi un secolo la decisione Dred Scott, non il pur degnissimo dissent del giudice Harlan. Non è stata necessaria alcuna opinione dissenziente per rovesciare in meno di un decennio (nel 1968) una sentenza della nostra Corte costituzionale che si rifiutava (nel 1961) di cancellare parte dell’articolo 559 del Codice penale che puniva l’adulterio femminile a differenza di quello maschile. È difficile, d’altra parte, introducendo l’opinione dissenziente, evitare il rischio che si produca, come in America, la scelta da parte dei membri della Corte di rivolgersi piuttosto ad un pubblico esterno piuttosto che provare a persuadere i colleghi, i quali in presenza della possibilità di una opinione separata, invece di fare ogni possibile sforzo per integrare le posizioni del dissenziente, potrebbero ignorarle rinviando quest’ultimo ad esercitare il possibile pubblico dissenso. Si dirà che su certe questioni il compromesso è impossibile. Forse, ma aprire al dissenso fa crescere l’incentivo – soprattutto nelle personalità più rigide – a dissentire. Se si tratta del relatore, questi può sempre chiedere, come accade da noi, di essere sostituito per la redazione della sentenza. In America, peraltro, la pratica del dissenso è esplosa solo negli anni ‘40 del secolo scorso, per ragioni che vale la pena capire meglio. Si dice, inoltre, che il pluralismo delle opinioni è un valore e che va esposto al pubblico. Ma il fatto che la Corte parli one voice – come collegio deliberante e non come una semplice insieme di individui (come nelle decisioni seriatim delle antiche corti della monarchia inglese) – non vuol dire unanimità della decisione. Come può essere una tale idea credibile se si pensa che siedono alla Consulta molto spesso dieci professori universitari, abituati dalla loro carriera ad essere di diversa opinione rispetto alla vulgata e alle opinioni dei colleghi? E che dire dei numerosi e spesso importanti commenti a sentenze di cui sono piene le pagine delle riviste di diritto pubblico? Che poi la minaccia dell’opinione dissenziente spinga la maggioranza a meglio argomentare la propria decisione non saprei proprio su cosa tale opinione sia basata. Lo studio delle decisioni della Corte Suprema americana mostra semplicemente che da quando l’opinione dissenziente si è generalizzata non c’è evidenza di tale miglioramento, piuttosto quella di una divisione sempre più spesso aggressiva e faziosa delle decisioni di maggioranza e di quelle di minoranza. Non si riflette, inoltre, abbastanza sul fatto che i membri della Supreme Court sono (assurdamente) nominati a vita con le conseguenze alle quali si è accennato, mentre i nostri giudici costituzionali sono spesso in condizioni di attivo servizio alla scadenza del loro mandato.
Trasparenza e pluralismo pubblico in assenza di responsabilità dinanzi al corpo elettorale sono fuori posto. La Corte non è un organo tipico del governo rappresentativo (vulgo, democrazia) e non possono valere per essa le regole necessarie al funzionamento degli organi elettivi e responsabili dinanzi al suffragio. Nel suo funzionamento e nel modo di produzione delle sue decisioni la Corte non deve rassomigliare ad una assemblea elettiva (che pure ha lavorato spesso a “porte chiuse” nelle commissioni in vista di ottenere consenso fra la maggioranza e l’opposizione ). La sua regola principe non può essere che la ricerca del consenso attraverso la deliberazione.
Qualche anno fa, il giudice costituzionale Valerio Onida in occasione di uno dei ricorrenti dibattiti sul tema propose il dissent anonimo, ma questa proposta non andava bene ai suoi colleghi. La proposta ha un senso, poiché disincentiva la vanità personale a favore della tesi di chi chiede più ragioni per riflettere sul giudizio della Corte. Il fatto che una tale proposta non venga ripresa fa sorgere qualche domanda sulle ragioni di questo rifiuto: imitazione del modello americano, rivendicazione della identità personale del giudice dissenziente, volontà, come è molto spesso il caso in America, di teach from the bench, di usare dunque la Corte come una cattedra dalla quale, rivolgendosi all’esterno in particolare ai giuristi, si creano scuole di pensiero partigiane, come hanno fatto per anni Antonin Scalia e Ruth B. Ginsburg.
Libertà eguale