I Giochi Olimpici sono sempre stati un fatto politico di enorme importanza, lo sono ancora di più oggi perché in Giappone vediamo il tramonto di un vecchio mondo, l’alba di un “new normal” di cui si scorgono le ombre, l’emersione di comportamenti (stavo per scrivere “stili di vita”, ma è una definizione del socio-marketing dell’era pre-pandemica, una storia finita) che plasmeranno il nostro futuro. La separazione tra città e campagna sarà sempre più netta (per essere chiari, la mia preferenza, visto il pre-giudizio in progress insito in questa contrapposizione, va all’autenticità e resistenza al logorìo del consumo della seconda), a cominciare dalla mobilità e dagli scenari energetici. Per questo abbiamo dedicato un intero numero di World Energy a Tokyo 2020, è uno spartiacque. Da qui comincia un altro tempo. Che ha le sue radici nella storia.
Lo stesso nome dei Giochi, “Tokyo 2020” ci presenta un calendario sfalsato, fin dal principio siamo in un altro tempo, sono Giochi del passato, gareggiati in un post-presente, proiettati in un diverso futuro. Sono Giochi differiti, allontanati dall’Annus Horribilis, ma con tutti i segni della crisi (e della ripresa) in corso. Sono Giochi in bolla e contagio. Sono Giochi con i test e i vaccini. Sono Giochi pandemici. Sono Giochi pensati in era pre-Covid e non ancora in zona post-Coronavirus. Dove siamo? Nel 2020, nel 2021 o in un’altra dimensione della storia? Sono domande che non si fanno guardando il calendario, dove viviamo l’illusione di un tempo in movimento, sincronizzato e teso sempre all’avvenire, l’oblio dell’avvenuto minuto dopo minuto. Questi Giochi Olimpici pongono una domanda profonda: dove stiamo andando e perché siamo arrivati fino a qui?
Il Giappone con la sua cultura millenaria, questo arcipelago di meraviglia, contiene oggi tutta l’umanità, la sua battaglia per la sopravvivenza. C’è lo sport, con le sue gioie, i suoi dolori, le sue imprese. Mentre scrivo questo articolo, l’italiana Federica Pellegrini conclude la sua quinta finale olimpica nei 200 stile libero, una nuotata nella storia, un record che ora mostra insieme allo “squalo di Baltimora”, il grande Michael Phelps. Siamo in vasca, mentre penso a questa epica battaglia sulla “durata”, ecco il volto di Simone Biles sorpreso dal proprio fantasma, una ginnasta americana, un enorme talento e una frase che gela il sangue: “Ho i diavoli nella testa, devo pensare alla mia salute”, per lei Tokyo 2020 finisce con il ritiro dalla psycho-arena. Siamo nel campo degli eroi greci, tutto è no limits, sei grande, cadi, sprofondi.
Questo è il campo da gioco dei miti, della tragedia, qui le parole sono quelle di William Shakespeare: “La gloria è simile a un cerchio nell’acqua che va sempre allargandosi, sin quando per il suo stesso ingrandirsi si risolve nel nulla”.
Perché questo è un capitolo del romanzo del potere. Insieme alla corsa, al salto, al tuffo, al tiro, al movimento, all’energia dell’essere umano, c’è il sottotesto della politica, siamo sempre in Grecia (sorgente delle Olimpiadi), a Atene, nel Liceo di Aristotele che ci ha insegnato che “tutto è politica”.
Le Olimpiadi sono una manifestazione del soft power che spesso si allena per la conquista. Voltiamoci indietro. Adolf Hitler usò i Giochi di Berlino del 1936 per rafforzare il suo regime, mostrare che l’ascesa del nazismo era ineludibile e gestibile dalle altre potenze. Qualche anno dopo, l’1 settembre del 1939 la Germania invase la Polonia, dal lanciatore di giavellotto alla cavalleria corazzata. In quei giochi, vi fu anche il bagliore anticipato della fine del Terzo Reich, emerse chi avrebbe sconfitto la Germania: Jesse Owens, americano, originario dell’Alabama, un atleta nero, fu la stella dei Giochi, vinse quattro medaglie d’oro. La teoria della razza di Hitler incontrò il suo nemico del domani, c’era il mondo nuovo ad attenderlo al cancello della libertà, gli Stati Uniti d’America che avrebbero conquistato Berlino, spazzato via l’orrore del nazismo e condotto l’Europa verso il più lungo periodo di pace della sua storia e un altro conflitto carsico in arrivo, la Guerra Fredda.
La storia è sempre maestra di vita. La velocità è il campo dove si misura la potenza. Gli anni della Guerra Fredda tra il 1970 e il 1978 (quelli dello sprinter Valery Borzov) furono la sfida dei velocisti americani contro i dragster russi (e l’irruzione sulla scena di una saetta italiana, il grande Pietro Mennea). L’Unione Sovietica sfrecciava con i suoi bolidi da laboratorio. Nel 1984 arrivò il fulmine dell’Alabama, Carl Lewis, un diluvio di medaglie d’oro a Los Angeles (quattro), due ori a Seul nel 1988, due ori a Barcellona nel 1992 e uno sul finale di una carriera da gigante ad Atlanta nel 1996. Velocità, staffetta, salto in lungo, un altro Jesse Owens che sancì, con gli altri atleti americani, la fine di un’era. Gli uomini di Mosca erano spariti, inghiottiti dal declino dell’Unione Sovietica. La pista era il dominio degli americani, dei canadesi e degli inglesi, vinceva l’Anglosfera con il flash caraibico della Giamaica. Qualcuno avrebbe detto che in fondo la “storia era finita” anche per l’atletica. Ma la profezia di Francis Fukujama applicata alla pista da corsa ebbe la stessa sorte che gli toccò sul gameboard della geopolitica: la storia si rimise in movimento, mentre un impero moriva (quello di Mosca), un altro nasceva (quello di Pechino). È l’ascesa e caduta delle nazioni. Corre e scorre in pista, sul velodromo, in vasca, all’ultima curva.
Fuori dai Giochi Olimpici dai tempi di Helsinki (1952), la Cina si ripresentò 32 anni dopo nel 1984 a Los Angeles (dove non c’erano i russi che avevano contro-boicottato i giochi americani, in risposta al no di Jimmy Carter alle Olimpiadi del 1980 a Mosca). La Cina si presentò sulla scena conquistando subito 34 medaglie, di cui ben 15 erano d’oro. Che sorpresa. In realtà non c’era nulla di cui stupirsi, la lunga marcia della Cina non era più quella del Comandante Mao, al timone del paese c’era già da tempo Deng Xiaoping, uomo di grande intelligenza, già commissario politico dell’Armata Rossa, leader de facto del paese fin dall’uscita di scena di Mao. È il presidente che con le sue riforme – l’apertura al capitalismo, l’istituzione delle zone economiche speciali, il controllo ferreo delle province, l’invenzione della dottrina di un paese, due sistemi per riottenere il controllo di Hong Kong – ha forgiato la Cina guidata oggi da Xi Jinping.
Le Olimpiadi sono un’operazione diplomatica, a cominciare dal riconoscimento delle discipline sportive ammesse. Quando arrivarono il Badminton (1992), la Ginnastica ritmica (1984), il judo (1972), il ping pong (1988) e il Taekwondo (1988), il medagliere cinese si arricchì grazie alla tradizione in quelle discipline. Si dirà che questo fa parte della cultura di un popolo e dunque il vantaggio era facile da acquisire. Non è così, la Cina si allena a vincere, ha una politica dello sport che s’accoppia alla potenza della nazione, pianifica la sua ascesa e Tokyo 2020 è il test per provare il sorpasso sugli Stati Uniti. La sfida è già partita, mentre chiudiamo questo numero di World Energy, l’America guida la classifica totale delle medaglie, la Cina segue a breve distanza. Secondo le proiezioni di Five Thirty Eight sarà così fino alla fine dei Giochi, con la vittoria finale di Washington su Pechino, il terzo posto del Giappone, il quarto della Gran Bretagna e il quinto posto di una sigla fino a ieri sconosciuta, ROC, che sta per “Russian Olympic Committee”, insomma un caso di (s)mascheramento della Russia, esclusa come nazione per lo scandalo del doping, ma presente con i suoi atleti (sono 335) che gareggiano sotto questa formula. A Tokyo non c’è la bandiera né l’inno della Russia, quando gli atleti (considerati “neutrali”) salgono sul podio, s’ode la musica di Pyotr Tchaikovsky, il “Piano Concerto No. 1” e non il coro dell’Armata Rossa. Sono alchimie politiche, le medaglie per Mosca arriveranno lo stesso e saranno tante.
E il futuro? C’è chi lo dipinge fosco e chi luminoso, le cronache dell’arcadia e della distopia non mancano: la luna che diventa rosso sangue, gli uccelli che muoiono sbattendo le ali e precipitando al suolo (si vede la scena nel film di fantascienza “Aniara”, tratto dal poema scritto dal premio Nobel svedese Harry Martinson), i miliardari della Silicon Valley che costruiscono razzi spaziali per fuggire (o per salvare il mondo e costruire una nuova “casa” su Marte? così dicono) dalla Terra troppo calda , troppo affollata, troppo povera. Siamo in piena variante Delta, la pandemia non è finita, ci siamo ricordati di aver letto sui libri di storia della peste nera (e Giovanni Boccaccio nel 1348, dopo aver visto morire a Firenze la matrigna Bice, lo zio Vanni e suo padre Boccaccino, resta solo con il fratellino Jacopo, e scrive il suo capolavoro, il Decameron) e qui lo stupore è per lo stupore, il succedersi delle catastrofi fa parte della storia e non è detto che la crisi del Coronavirus sia quella peggiore (leggere Doom, l’ultimo libro di Niall Ferguson). Bisogna prepararsi e le Olimpiadi di Tokyo possono insegnarci molto sul come saremo (o non saremo più).
Nel 1972 un team di studiosi del Mit realizzò uno studio, pubblicato dal Club di Roma, che diceva sostanzialmente questo: gli attuali tassi di crescita e consumo diventeranno insostenibili entro l’anno 2100. Furono presi in esame cinque fattori: aumento della popolazione, produzione agricola, esaurimento delle risorse non rinnovabili, produzione industriale e tassi di inquinamento. Le cose non andavano bene (ma potevano andare peggio). Cinquant’anni dopo, c’è chi ha aggiornato quello studio e anticipato la data del collasso al 2040. A che ora è la fine del mondo?
Quelli di Tokyo 2020 sono giochi pensati ieri, consumati oggi con una speranza per il domani. Giochi senza pubblico, con una gioia virtuale, in megapixel, l’animazione di un manga, con un Giappone che (forse) alla fine li amerà, quando tutto sarà finito. Questi Giochi Olimpici ci raccontano con il loro silenzio in tribuna, il sospetto, la diffidenza dei giapponesi, le trame politiche, ci raccontano molto del futuro, contengono una quota di distopia, di a-normalità indefinita.
Di Tokyo 2020 non resteranno impresse nella memoria né la diplomazia né le opere né le idee “green” né la “sostenibilità” né la “transizione”. Esistono, sono un trend dell’immediato (e qui sta il paradosso, dunque sono fragilissimi), ma il copione del domani riserva altri shock. Queste ultime parole, nelle pur nobili intenzioni, sono tutte frasi di un nuovo/vecchio ecologismo che si stanno consumando nel detto e contraddetto, perdono il significato con il loro uso in eccesso, centrifugate appunto da un nuovo -ismo, infiocchettate nel pacco dell’ideologia. Di fronte a questa Babele, su WE continuiamo a predicare (sì, qualche volta ci sentiamo nel deserto) il pragmatismo e il realismo, l’ottimismo dell’homo faber contro il pessimismo delle decrescite infelici. Non occorrerà attendere molto per vedere tutti gli angeli cadere a terra.
In fondo, Tokyo 2020 ci mostra anche questo frammento incandescente di futuro realizzato per caso e indesiderabile, dove non c’è l’uomo, regna un sinistro silenzio rotto dagli elementi di una sceneggiatura artificiale: premi un tasto, applausi; ne schiacci un altro, musica; non tocchi niente in sala regia, silenzio. Ci siamo quasi, siamo a un passo dalla porta d’ingresso (e uscita) del Truman Show. A un certo punto, come nel Riccardo III, ci sarà un brusco risveglio nella realtà del campo di battaglia e sentiremo il verso: “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”. Quello sarà il momento in cui, con la chiusura della cara vecchia manifattura e la perdita dei posti di lavoro, si accorgeranno che qualcosa non torna nelle splendide previsioni. Pessimisti? Per niente, siamo ottimisti bene informati.
Tokyo 2020 è un evento mutato e mutante, cambia nel corso dei giorni (come il virus), ha un fine e un confine cangiante di cui stiamo scoprendo la forma con l’andare avanti delle gare, il dispiegarsi delle storie. Le immagini che resteranno di Tokyo sono quelle di uomini e donne in cerca di un sogno. Mentre nel mondo corre la variante Delta, lo scenario di Tokyo appare come la promessa di un altro capitolo, non la fine del romanzo della pandemia. Siamo ottimisti, le cose andranno bene, un anno fa non c’erano i vaccini, oggi abbiamo lo scudo, manca ancora la spada del Samurai, l’autocontrollo.
*Articolo pubblicato su ‘We Energy’
Source: agi