Come sarà la Pasqua per chi lavora in un ospedale Covid a Genova


Il turno di domani inizia alle 7:30 e va avanti ad oltranza, “finché c’è meno bisogno”. Ecco la Pasqua di Paolo Frisoni, 38 anni, uno dei medici dell’Unità di Rianimazione dell’ospedale San Martino di Genova, tra i poli sanitari più sotto stress in questa emergenza coronavirus.

“Domani sarà un giorno di lavoro come un altro: non sarà domenica, non sarà Pasqua. Si farà il turno in ospedale, si darà assistenza ai pazienti – dice il medico all’Agi – Inizierò alle 7:30 e finirò quando ci sarà meno bisogno. Si sa quando si entra, ma non quando si esce. Come sempre”.

Frisoni, ha una compagna che fa l’infermiera in un altro reparto Covid. Da subito si sono auto-isolati, sottoposti a tampone e lontani dalle proprie famiglie che non vedono da oltre un mese, ovvero da quando è esploso il contagio anche in Liguria: “Erano i primi di marzo – ricorda – da quel momento nessuno si è tirato indietro, nessuno si è mai fermato un giorno: infermieri, medici, operatori, tecnici, nessuno. La paura? C’è sempre. Aiuta però a proteggersi” spiega. 

L’evoluzione della malattia in Liguria, dal “fronte” genovese del San Martino, è stata rapida: d’improvviso l’ospedale – da subito hub centrale per la regione nella lotta al virus – è stato travolto da un afflusso straordinario di pazienti che ha costretto ad azioni rapide e rivoluzionarie: “Siamo stati in grado di mettere in piedi due nuove rianimazioni dal nulla: una da 12 posti, sotto la guida del professor Pelosi, e un’altra al pronto soccorso, creata in 6 ore un sabato pomeriggio, sotto la guida del direttore del reparto, il dottor Gratarola” ricorda Frisoni.

Quel che da subito ha colpito è stato l’alto numero di persone che avevano bisogno delle terapie di rianimazione: “Non eravamo preparati ad un tale afflusso, ma siamo stati in grado di aumentare i posti nel modo giusto, istruendo anche il personale non adibito a queste funzioni in giornate normali: basti pensare – dice – che nel reparto di Infettivologia abbiamo allestito una postazione di ventilazione non invasiva che, nelle giornate peggiori, è arrivata ad aiutare 20-25 pazienti. In tempi normali è impensabile per un infettivologo occuparsi anche di terapia ventilatoria, ma con il nostro supporto sono riusciti a farlo in maniera egregia”.

Un sforzo medico eccezionale, per garantire a tutte quelle persone “estremamente sofferenti” le cure di cui avevano bisogno: “A tutti bisognava, e bisogna ancora, dare una mano nel modo giusto: chi con la mascherina d’ossigeno, chi con terapia ventilatoria non invasiva, ovvero i famosi caschi di cui si sente tanto parlare, chi con una terapia massimale orotracheale e il conseguente passaggio alla ventilazione meccanica, in terapia intensiva”.

Un lavoro che non si limita solo ad individuare il percorso di cura, ma anche a fornire un supporto psicologico: “E’ difficile – dice Frisoni – perché questa gente arriva da sola, che è la cosa più brutta che possa capitare in un momento di enorme sofferenza: si trovano a stare male, catapultati in un ambiente a loro ostile, come può essere un ospedale, con gente che non conoscono, senza l’ausilio dei parenti. Per questo forniamo loro anche un aiuto psicologico, una parola di conforto, un sorriso anche se in alcuni momenti dare un sorriso è stato più complicato che fornire una terapia”.

Da inizio emergenza in tutta la Liguria sono stati segnalati oltre 700 decessi, molti dei quali al San Martino. Non numeri, ma “occhi, frasi, volti che rimangono impressi” dice Frisoni. “Tutti i pazienti sono stati trattati allo stesso modo, con le cure del caso – sottolinea – Ma c’è una persona che ricordo bene. Una che prima di ‘addormentarsi’ ha detto: ‘Per favore, ringraziate mia moglie e ditele che ho passato gli anni della mia vita più belli con lei’. Era il marito di una collega che lavora in un altro ospedale, quindi il coinvolgimento emotivo era molto forte”.

Ma oltre al grande dolore per le perdite, che resta appiccicato addosso come i necessari dispositivi individuali di protezione che si indossano da inizio a fine turno, ci sono anche momenti di gioia che permettono di andare avanti: tra questi, ricorda il medico 38enne, “l’estubazione del primo paziente dalla Rianimazione che abbiamo creato dal nulla al pronto soccorso.

Doveva essere una ‘rianimo’ di passaggio, fatta per non lasciare nessuno indietro. Quando invece abbiamo visto i primi risultati anche qui è stata una grandissima soddisfazione: i nostri sforzi erano stati premiati dallo sguardo di questa persona a cui noi, esclusivamente noi – dice con orgoglio – avevamo ridato la vita. E’ stato veramente un bel momento, importante per andare avanti”.

La storia di Paolo è la storia di tutti i professionisti del sistema sanitario italiano che da settimane sono in prima linea per curare il Paese dal covid-19. E lo saranno anche domani, nel giorno della festa, in questa domenica di Pasqua: “Non mi sento un eroe – sottolinea – io mi sento un medico, un professionista, una persona che ha scelto per mestiere di aiutare gli altri. Si fa in tempo di pace e in tempo di guerra, come quello che stiamo vivendo adesso. Mi sento un lavoratore, una persona al posto giusto, nel momento giusto”. 

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Fonte: cronaca agi