…Come Oggi 53 anni fa la Primavera di Praga. La storia non dimentica e non finisce


di Antonino Gulisano

Sono trascorsi 53 anni, da quel 5 gennaio del 1968 che vide l’elezione a Segretario generale del Partito comunista cecoslovacco dello slovacco Alexander Dubček.  

Quel 5 gennaio si inaugurò la Primavera di Praga (in ceco Pražské jaro, in slovacco Pražská jar), che è stato un periodo storico di liberalizzazione politica avvenuto in Cecoslovacchia durante il periodo in cui questa era sottoposta al controllo dell’Unione Sovietica, dopo gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale e nell’ambito della guerra fredda. La primavera di Praga ebbe fine il 20 agosto dello stesso anno, quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.

La Primavera di Praga è uno di quegli eventi che hanno lasciato il segno nella storia contemporanea. In un mondo diviso in blocchi, era il gennaio del 1968, le due gradi potenze, Unione Sovietica e Stati Uniti d’America si guardavano con i toni della “guerra fredda”, facendo a gara a chi avesse più testate nucleari. In questo clima Mosca non poté tollerare, appena 12 anni dopo la rivolta in Ungheria, le istanze sorte nell’allora Cecoslovacchia, dove il movimento guidato da Alexander Dubcek, proponeva una svolta democratica, un socialismo dal volto più umano e una maggiore autonomia dall’Urss.

Il Cremlino lesse quest’evento come un grosso rischio per la compattezza del Patto di Varsavia, composto dall’Unione Sovietica e dai Paesi satelliti dell’Europa orientale. Furono inviate truppe a Praga che vi fecero irruzione con i carri armati. La capitale fu invasa dalle truppe sovietiche il 21 agosto del 1968. Il giovane attivista ceco per la democrazia, Jan Palak, con un gesto drammatico, si dette fuoco in segno di protesta contro l’intervento di Mosca, divenendo da allora emblema della lotta per la democrazia. Nel giro di alcuni giorni, arrestati Dubcek e gli altri leader della Primavera, venne instaurato un nuovo governo filosovietico.

Le riforme della Primavera di Praga furono un tentativo da parte di Dubček di concedere nuovi diritti ai cittadini grazie ad un decentramento parziale dell’economia e alla democratizzazione. Le libertà concesse inclusero un allentamento delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento.

Il processo di destalinizzazione in Cecoslovacchia era iniziato sotto Antonín Novotný tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, ma andava progredendo più lentamente rispetto ad altri stati del blocco orientale. Seguendo l’esempio di Nikita Chruščëv, Novotný proclamò il completamento del socialismo e la nuova costituzione, adottando il nome di Repubblica Socialista Cecoslovacca. Il ritmo del cambiamento, tuttavia, era lento. La riabilitazione delle vittime di epoca stalinista, come quelle condannate nei processi Slansky, fu iniziata fin dal 1963 ma non portò a risultati concreti fino al 1967. Nello stesso tempo si facevano sentire le strette regole volute dal regime, l’Unione degli scrittori cecoslovacchi cautamente cominciò a esternare il malcontento nell’aria e nella gazzetta del sindacato, Literární noviny, alcuni membri proposero che la letteratura avrebbe dovuto essere indipendente dalla dottrina del Partito.

Nei primi anni sessanta, la Cecoslovacchia subì una recessione economica. Il modello sovietico di industrializzazione fu applicato in modo inefficace. La Cecoslovacchia era già molto industrializzata prima della seconda guerra mondiale e il modello sovietico teneva soprattutto conto delle economie meno sviluppate. Novotný tentò così una ristrutturazione dell’economia e fece una maggiore domanda di riforme politiche.

Nel giugno del 1967, un piccolo gruppo di scrittori cechi simpatizzarono con i socialisti radicali: esso era formato in particolare da Ludvík Vaculík, Milan Kundera, Jan Procházka, Antonín Jaroslav Liehm, Pavel Kohout e Ivan Klíma. Alcuni mesi più tardi, in una riunione di partito, fu deciso di intraprendere azioni amministrative contro gli scrittori che apertamente esprimevano sostegno alla riforma.

La stagione delle riforme ebbe bruscamente termine nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, quando una forza stimata fra i 200.000 e i 600.000 soldati e fra 5.000 e 7.000 veicoli corazzati invase il paese. Le unità principali che effettuarono l’invasione erano le formazioni corazzate e meccanizzate del Gruppo di forze sovietiche in Germania che penetrarono in Cecoslovacchia dalla Sassonia. Il grosso dell’esercito cecoslovacco, forte di 11 o 12 divisioni, obbedendo ad ordini segreti del Patto di Varsavia, era stato schierato alla frontiera con l’allora Germania Ovest, per agevolare l’invasione e impedire l’arrivo di aiuti dall’occidente. La Romania, pur essendo nel Patto di Varsavia, non partecipò all’invasione giudicata come aggressione ad un Paese socialista amico.

L’invasione coincise con la celebrazione del congresso del Partito Comunista Cecoslovacco, che avrebbe dovuto sancire definitivamente le riforme e sconfiggere l’ala stalinista. I comunisti cecoslovacchi, guidati da Alexander Dubček, furono costretti dal precipitare degli eventi a riunirsi clandestinamente in una fabbrica, ed effettivamente approvarono tutto il programma riformatore, ma quanto stava accadendo nel paese rese le loro deliberazioni completamente inutili. Successivamente questo congresso del partito comunista cecoslovacco venne sconfessato e formalmente cancellato dalla nuova dirigenza imposta da Mosca a governare il paese.

La miopia delle autorità sovietiche non permise di realizzare nel 1968 quanto avvenne più traumaticamente 43 anni fa con Solidarnosc in Polonia e con la perestroika di Gorbaciov, che anticipò di poco la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma, guardate con il senno del poi, le istanze portate avanti da Dubcek in Cecoslovacchia appaiono oggi abbastanza utopiche. Egli voleva rimanere socialista e far dialogare un regime rigido dal punto di vista politico, militare ed economico con le idee del libero mercato sarebbe stato impossibile. Di quella stagione rimane però l’entusiasmo deluso dei giovani di allora, la riprovazione per l’intervento sovietico a Praga e in territorio ceco, e le immagini tragiche del giovane Jan Palak in fiamme in piazza Venceslao, a Praga. Tutti tasselli di un’occasione mancata di cui vediamo le conseguenze anche oggi.

La Primavera di Praga è finita, ma a seguito di quegli eventi, l’URSS smette di essere il paese di riferimento del comunismo internazionale: molti partiti comunisti occidentali si allontanano dalla influenza sovietica, dando vita al così detto eurocomunismo.

Mezzo secolo dopo sono i libri di storia a custodire la ‘Primavera di Praga’ e il fascino di un esperimento coraggioso e tragico ormai definitivamente archiviato, se non del tutto rimosso, dalla memoria politica della Repubblica ceca. E a prevalere è semmai il ricordo dell’invasione nell’agosto 1968 di centinaia di migliaia di soldati e di migliaia di carri armati del Patto di Varsavia più che il tentativo di “socialismo dal volto umano” che Alexander Dubcek cercò inutilmente di pilotare.