… come oggi. 10 febbraio 1986 inizia il maxiprocesso di Palermo


di Ettore Minniti

Il 10 febbraio 1986 iniziò, nell’aula bunker del carcere palermitano dell’Ucciardone il cosiddetto Maxiprocesso, che coinvolgeva 221 imputati detenuti, 59 a piede libero e 194 latitanti.

È il primo processo unitario alla mafia, istruito da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e il pool di magistrati costituito da Rocco Chinnici e poi guidato da Antonino Caponnetto.

Il Maxiprocesso segnò una svolta decisiva nella lotta per arginare delitti e profitti dell’associazione criminale denominata Cosa Nostra.

Una montagna di carte processuali. Pietro Grasso così ricorda l’inizio: “Quando seppi di esservi stato assegnato come giudice a latere andai da Giovanni Falcone, che aveva istruito il processo. Mi disse: “Benvenuto, ti presento il maxiprocesso”. Aprì una porta e vidi una stanza con gli scaffali fino al soffitto: quattro pareti piene di fascicoli e di carte processuali, erano circa 400 mila atti da studiare... E Falcone ho visto che mi osservava. Dissi: “Dove si trova il primo volume?”. In quel momento si distese in un sorriso, aveva capito che non ne ero sopraffatto e che mi sarei impegnato, perché quella era la sua creatura, il lavoro di anni condotto con Paolo Borsellino”.

Il Maxiprocesso di Palermo è stato l’evento più importante della storia giudiziaria del dopoguerra, che per quasi due anni ha animato l’aula bunker costruita appositamente accanto al carcere dell’Ucciardone. Una svolta storica perché fino ad allora quasi tutte le azioni di contrasto giudiziario alla mafia si erano risolte con un’assoluzione.

476 imputati, l’infinita teoria di testimonianze, requisitorie, arringhe difensive repliche dell’accusa svoltosi per 20 mesi tra il 1986 e il 1987.

La camera di consiglio, il luogo fisico e metaforico nel quale la Corte si ritira per deliberare, è durata 35 giorni. Il dispositivo della sentenza ha richiesto ben 53 pagine e una lettura durata un’ora e mezza.

Il processo si concluse con 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione e la prima applicazione su larga scala del 416-bis approvato dopo l’assassinio di dalla Chiesa.

7.000 pagine, divise in 37 tomi, furono necessarie a rendere conto della decisione della Corte d’ Assise di Palermo nel testo della motivazione della sentenza di primo grado, stesa a quattro mani dal Presidente Alfonso Giordano e dal Giudice a latere Pietro Grasso

Si è trattato del processo che è stato in grado di dimostrare, fino a scriverne per la prima volta il nome in una sentenza definitiva, l’esistenza di una associazione mafiosa chiamata Cosa nostra, unitaria e verticistica, “governata” da una commissione o “cupola” come organismo di direzione e controllo. 

Dopo di esso anche altri processi di mafia con molti imputati sono stati chiamati maxiprocessi, ma il maxiprocesso per antonomasia resta quello di cui parliamo, non per caso seguito dai cronisti di tutto il mondo e, aperto, per massima trasparenza alle telecamere.

L’intuizione per far fronte alla guerra di mafia, con tanti morti, venne da Rocco Chinnici, allora a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Chinnici decise di affidare le indagini sulla mafia ad un gruppo specializzato di magistrati, favorendo la circolazione e la condivisione delle informazioni. In tal modo si riuscì a mettere a fuoco in maniera complessiva la mafia, non più analizzando soltanto ristrette porzioni del fenomeno, ma esaminandolo con uno sguardo d’insieme. Il Pool e il capo della Squadra Mobile, il vicequestore Ninni Cassarà, avviarono un’azione di contrasto a Cosa Nostra come mai prima di allora. In particolare, quest’ultimo stilò di persona il c.d. “Rapporto dei 162”, considerato l’embrione dell’ipotesi investigativa alla base del Maxiprocesso.

Chinnici fu ucciso nel 1983 e Cassarà nel 1985, entrambi per mano di Cosa Nostra come ritorsione alle indagini che stavano svolgendo.

Alla morte di Rocco Chinnici prese il testimone Antonino Caponnetto, e poi a seguire Falcone e Borsellino che cominciarono ad organizzare una politica antimafia, specializzandosi nelle indagini. Come Chinnici, Falcone e Borsellino pagarono anch’essi con la vita il loro impegno, entrambi uccisi da Cosa nostra, rispettivamente il 23 maggio e il 19 agosto 1992, pochi mesi dopo la Cassazione diede loro definitivamente ragione.

Oltre ai giudici inquirenti del pool antimafia, desideriamo ricordare anche il giudice Alfonso Giordano, che aveva esperienza di penale ma preferiva il civile, dopo che molti colleghi, adducendo motivi di salute e altri motivi, rifiutarono di assumersi l’incarico di presiedere la Corte d’ Assise del maxiprocesso, prese su di sé l’amaro calice di quel ruolo che tutti sapevano rischioso e impervio. Seppe condurlo con fermezza ed equilibrio, senza mai perdere la calma e l’autorevolezza neppure nei – non pochi – momenti di tensione, in cui l’aula bunker si trasformava in una bolgia, con gli imputati che dalle gabbie urlavano di tutto, dagli insulti alle velate minacce.

Il Maxiprocesso è stato una pietra militare, già entrato nei libri di storia, grazie a uomini e giudici con l’alto senso del dovere che hanno pagato un prezzo altissimo per il loro impegno civico.