"Colossale depistaggio". I misteri che restano sulla strage di via D'Amelio


Silenzi e misteri. Un’ombra lunga che ancora non è stata dissolta. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Ventotto anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e indagini. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto di incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”.

Il verdetto del processo Stato-mafia, del 20 aprile 2018, con l’Appello iniziato poco più di un anno fa ha aperto scenari inediti. La trattativa, stabilisce quella decisione, c’è stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra avrebbero negoziato mutue concessioni, condizionato scelte e uomini, e accelerato l’epilogo tragico del 19 luglio.

Quando Falcone cominciò a morire

Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta.

Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma. La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. 

Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”.

A un certo punto, raccontò Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”.

Esplosione nel cuore di Palermo

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, quel 19 luglio 1992 pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58.

L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.

A novembre 2019 si è concluso in appello il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a 10 anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Scarantino. 

Il ruolo di Messina Denaro

Dal marzo 2017 da latitante è a giudizio a Caltanissetta per le stragi del ’92. È accusato di esserne uno dei mandanti. Durante l’udienza preliminare, il pubblico ministero aveva sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista. Il capomafia, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del ’92, ma la missione fallì. All’apertura del procedimento, il pm aveva chiesto di interrogare l’imputato Messina Denaro… aggiungendo che era “un auspicio”. Per lui al termine della requisitoria ha chiesto l’ergastolo.

“Messina Denaro – ha detto Paci – è il frutto marcio di ciò che fu Totò Riina, è stato un membro della commissione regionale, ha partecipato alla deliberazione di morte e all’esecuzione di fatti eccellenti collegati a quella decisione, fu il primo a partecipare ai tentativi di uccidere Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nemici storici di Cosa Nostra”. La decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, “ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza, dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa Nostra di continuare nel proprio intento: anzi, piu che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese”.

Dopo 28 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti restano sotto processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio.

Il 5 giugno la procura di Messina ha chiesto l’archiviazione per due magistrati, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito cosa nostra. Entrambi, da pm a Caltanissetta, avevano indagato sull’attentato. Le vittime del depistaggio si sono opposte e il 19 ottobre il gip deciderà. Il libro della verità e della giustizia di questo Paese presenta ancora troppe pagine strappate. 

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Fonte: cronaca agi