Cina, c’è un nuovo attore in Medio Oriente

Wang Yi, a member of the Political Bureau of the Communist Party of China (CPC) Central Committee and director of the Office of the Central Foreign Affairs Commission attends a meeting with Secretary of Iran's Supreme National Security Council Ali Shamkhani and Minister of State and national security adviser of Saudi Arabia Musaad bin Mohammed Al Aiban in Beijing, China March 10, 2023. China Daily via REUTERS ATTENTION EDITORS - THIS IMAGE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. CHINA OUT.


 

Pechino alla ribalta sulla scena internazionale come mediatore tra Iran e Arabia Saudita è l’istantanea di un mondo che cambia.

 

Mentre le Due Sessioni del partito comunista cinese si avviano alla chiusura, Pechino può intestarsi un successo diplomatico di non poco conto in Medio Oriente. Grazie alla mediazione cinese infatti, Iran e Arabia Saudita hanno annunciato venerdì la ripresa normali relazioni bilaterali dopo un ‘gelo’ durato sette anni. L’accordo, forgiato su iniziativa del presidente cinese Xi Jinping e sigillato nella capitale cinese porterà, tra le altre cose, alla riapertura delle ambasciate in entrambi i paesi e a una possibile soluzione nell’annosa guerra civile in Yemen. Ma l’intesa va oltre i confini dei singoli paesi: è una svolta significativa in una rivalità che ha lacerato la regione e può potenzialmente cambiare il volto del Medio Oriente. Nel contempo, è un successo che mette in luce le doti diplomatiche della Cina, proiettandola su un palcoscenico internazionale di primo piano. Un paese che si dimostra “mediatore affidabile e in buona fede” come ha sottolineato il capo della diplomazia cinese, Wang Yi che, senza lasciarsi sfuggire l’occasione di lanciare una frecciatina in direzione di Washington, ha aggiunto: “Il mondo non si limita alla questione ucraina”, e “ci sono molte questioni relative alla pace e al sostentamento delle persone che richiedono l’attenzione della comunità internazionale”.

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Per Tel Aviv è una sconfitta?

La tempistica della riconciliazione è stata una sorpresa per molti; fino a poco tempo fa, i funzionari sauditi ammettevano che i colloqui con l’Iran stavano facendo pochi progressi. Anche per questo le reazioni degli attori regionali cambiano a seconda dei punti di osservazione: Visto da Tel Aviv, l’accordo segna una sconfitta nel progetto di isolare la Repubblica Islamica e rafforzare i legami con Riyadh avviati dagli Accordi di Abramo voluti dall’amministrazione Trump. Israele infatti vede nell’Iran e nel suo programma di arricchimento nucleare un pericolo esistenziale. Ma l’annuncio dell’intesa suggerisce che se anche altri paesi della regione guardano all’Iran come ad una minaccia, ritengono tuttavia poco vantaggioso isolare Teheran nella misura in cui vorrebbe Israele, considerandolo un vicino ‘problematico’ con cui si è comunque chiamati a fare i conti. Di certo la riconciliazione con Teheran rafforza il principe Mohammed Bin Salman e il suo ambizioso piano ‘Vision 2030’, i cui obiettivi – dalla diversificazione dell’economia all’attrazione di investimenti – sarebbero particolarmente difficili da realizzare con una guerra, quella in Yemen, che infiamma il confine meridionale e missili che attraversano lo spazio aereo del regno. In tal senso, la volontà di risoluzione dei conflitti regionali è guidata anche dal desiderio del principe ereditario di trasformare l’Arabia Saudita in una potenza globale a sé stante, non più legato esclusivamente agli Stati Uniti.

Washington minimizza?

Se si osserva da Washington, l’accordo dà un senso di straniamento. Gli americani, protagonisti in Medio Oriente da oltre settant’anni, si trovano improvvisamente ai margini della scena che immortala un cambiamento significativo. Schierati da tempo a favore di Riyadh e privi di relazioni diplomatiche con l’Iran da decenni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto svolgere un ruolo di mediazione tra i due paesi. Ma se ufficialmente la Casa Bianca ha accolto con favore il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, in privato – secondo il New York Times – funzionari dell’amministrazione democratica hanno contribuito a minimizzare la portata dell’intesa e il ruolo svolto da Pechino, deridendo le letture secondo cui questo indicherebbe un’erosione dell’influenza americana nella regione. Tuttavia, è sconcertante per molti veterani della diplomazia statunitense vedere la Cina ricoprire un ruolo così centrale in un’area come il Medio Oriente. “Non c’è modo di girarci intorno: questa è una cosa grossa” osserva Amy Hawthorne, del Project on Middle East Democracy. “È vero, gli Stati Uniti non avrebbero potuto mediare un simile accordo in questo momento con l’Iran, dal momento che non abbiamo relazioni. Ma in un senso più ampio, il prestigioso risultato della Cina la proietta diplomaticamente su un nuovo livello, oscurando tutto ciò che gli Stati Uniti sono stati in grado di ottenere nella regione da quando Biden è entrato in carica” puntualizza.

Pechino colma un vuoto?

Se gli analisti convengono sul fatto che l’accordo non trasformerà nell’immediato le relazioni tra Riyadh e Washington, principale garante della sua sicurezza, non c’è modo di non notare che la leadership saudita – dopo la decisione di tagliare le forniture di petrolio facendo schizzare i prezzi alla vigilia delle elezioni di midterm negli Stati Uniti – stia ora regalando al principale rivale americano una vittoria di prestigio. Questione prettamente geopolitica per Chas Freeman, per cui “se crei un vuoto diplomatico, qualcuno lo riempirà e questo è fondamentalmente quello che è successo alla politica statunitense nel Golfo”. Un fenomeno favorito da attori che, come MBS, guardano con favore ad un riassetto dell’ordine globale. Più che di uno schiaffo però, si tratta di un bruciante promemoria che ricorda a Washington che la competizione con Pechino è su un palcoscenico globale. La sfida con la Cina “non si esaurisce nell’Indo-Pacifico – afferma Mara Rudman del Center for American Progress ed ex inviata per il Medio Oriente sotto Obama – così come non si limita all’economia, alla sicurezza o all’impegno diplomatico”. In questo senso, la decisione di intervenire nella spaccatura saudita-iraniana non è una sfida agli interessi di Washington, ma segnale che nella regione c’è un nuovo attore da non sottovalutare.

Il commento

di Filippo Fasulo, Co-Head Geoeconomics Centre ISPI

“La firma a Pechino dell’accordo tra Iran e Arabia Saudita è figlia di un cambio strutturale in corso da anni. Dal 2017, infatti, la Cina è il principale importare mondiale di petrolio e l’Arabia Saudita nel 2022 ha esportato verso Pechino oltre il 20% del totale. Se i Sauditi guardano a Est per ragioni economiche, l’Iran trova nella Cina una via di fuga all’isolamento internazionale cui è confinato da anni. La Cina, invece, cerca una legittimazione internazionale per un ruolo da protagonista nelle relazioni internazionali da opporre all’azione di contenimento degli Usa, una democrazia che contesta il carattere autocratico di Pechino.
Il fatto che la Cina sia intervenuta in questo accordo solo alle battute finali è paradossalmente un punto di forza di Xi che può rivendicare come la sua “benedizione” sia considerata positivamente. Non a caso, all’accordo ha fatto seguito un possibile dialogo con Zelensky a margine dell’incontro con Putin. Si tratta però di un primo passo della Cina come attore “responsabile” che dovrà essere testato in caso di eventuali ricadute della crisi Iran-Arabia Saudita. In sintesi, Xi dovrà dimostrare cosa vuol dire in termini pratici per la pace avere il sostegno politico cinese”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)