Chip war, il fronte tecnologico nella guerra tra Stati Uniti e Cina


AGI – La guerra tra Usa e Cina è anche una questione di silicio. Qualcuno la chiama la ‘chip war’, la ‘guerra dei semiconduttori” che è un pezzo importante, fondamentale, della grande battaglia tra Oriente e Occidente per la supremazia tecnologica: uno scontro tra ‘titani’ che vede i grandi produttori di high tech giocarsi le proprie carte in vista del predominio nel digitale, nelle reti mobili 5G, nell’intelligenza artificiale e dunque nella produzione dei chip che fanno funzionare tutti i telefonini e tutti i computer.

I nomi dei combattenti? Snapdragon (Qualcomm), Intel, Exynos (Samsung), A12 Bionic (Apple), Kirin (Huawei), che poi sono sostanzialmente i big, spesso sconosciuti ma potenti, dell’industria del silicio.

La guerra è diventata particolarmente incandescente dopo il 2018, in parallelo alla guerra tariffaria di Donald Trump. “L’industria dei microprocessori (i cervelli dei computer e degli smartphone costituiti da uno o più circuiti integrati, chiamati anche microchip, ndr) – scriveva, non a caso già nel 2018, l’Economist – è quella in cui la leadership industriale americana e le ambizioni da superpotenza cinesi si scontrano in modo più diretto”.

Guerra su tutti i fronti Tech

E questo perché la battaglia sul digitale si gioca ovunque: in tutti i device e sui sistemi grazie ai quali ai funzioneranno le case, le auto, le fabbriche e le banche del futuro, nonché nei ‘circuiti’ che fanno muovere gli eserciti e le attività di cyberspionaggio. E’ quindi anche una guerra di Stato in cui soprattutto l’amministrazione Trump si è distinta attaccando a testa bassa i colossi cinesi delle tlc Huawei e Zte, o bloccando la scalata a Qualcomm, il gioiello di San Diego che produce i semiconduttori più avanzati, ad opera di Broadcom (sede legale a Hong Kong), e avviando la guerra con la Cina, uno dei cui obiettivi è quello di ostacolare il piano “Made in China 2025”, che vuole sancire la supremazia tecnologica del Dragone nel mondo, nel quale i semiconduttori sono un elemento chiave.

 Insomma, tutto porta al silicio, la materia prima che fa funzionare i microprocessori, insieme alle ‘terre rare’, prodotte soprattutto in Cina, cioè tutte quelle materie prime, dallo scandio all’ittrio, che sono la ‘benzina’, il minerale che consente il funzionamento di alcune tecnologie d’avanguardia. La guerra dei chip, insomma, è in qualche modo il principale snodo, il crocevia della più complessiva guerra per la supremazia tecnologica mondiale.

Divieto a Huawei di utilizzare proprietà intellettuale Usa

Uno degli ultimi capitoli quest’anno della campagna di Donald Trump contro la Cina è stato il “Foreign Direct Product Rule” del ministero del Commercio Usa, che impedisce al gigante tecnologico cinese Huawei di utilizzare la proprietà intellettuale statunitense (software e attrezzature) per produrre semiconduttori, anche se progettati internamente, il che ostacola non poco Huawei nell’espansione del 5G, che poi è il futuro delle tlc. In risposta e questo duro colpo Huawei sta costruendo una riserva di chip per il 5G.

Tuttavia, se l’azienda cinese avrà difficoltà a reperire chip nel lungo termine, l’impatto si ripercuoterà su tutto il sistema delle tlc del Dragone, rallentando l’introduzione del 5G e aumentando i costi di capitale. Tutto ciò favorirà concorrenti come Ericsson e Nokia in Europa e, non a caso, il governo americano sta pensando di acquisire delle partecipazioni in queste società, “smussando”, secondo un’affermazione del procuratore generale William Barr, la “spinta al dominio” di Huawei”. 

La “Rule” però non vieta la vendita a Huawei di semiconduttori progettati da altre aziende e fabbricati con tecnologia statunitense. In altre parole, le restrizioni sono minori di quanto temuto e mirano soprattutto a ostacolare i progressi di Huawei nel campo del 5G.

Il tallone d’Achille della leadership Usa nei chip 

Gli Stati Uniti hanno un vantaggio indiscusso in molte parti dell’industria globale dei semiconduttori, dal software e dalle apparecchiature necessarie per progettare e produrre chip, alla vendita di prodotti finiti per molti usi specialistici. Tuttavia, quando si tratta di realizzare effettivamente i ‘wafer’, le fette di silicio delle dimensioni di un piatto da portata che sono la parte più impegnativa del processo di produzione, la leadership Usa mostra la corda. Solo il 12% circa della produzione di chip avviene sul suolo americano.

In un mondo sempre più instabile, ciò rende nervosi i maggiori clienti americani del settore dei chip – da Apple al Pentagono, ai parlamentari del Congresso. Questi ultimi hanno recentemente stanziato 25 miliardi di dollari, destinandoli ad aumentare la produzione di chip e alla ricerca associata. Tuttavia, in un mondo globalizzato, il compito non è così facile come sembra. 

Un esempio? Apple sta per abbandonare Intel come fornitore dei suoi chip per il Mac e progetta processori per altri gadget, ma per realizzare tutto ciò fa molto affidamento su Tsmc, la fonderia taiwanese che produce chip per conto terzi. La stessa Tsmc, approfittando delle difficoltà di Intel, potrebbe scalzare il gigante Usa come produttore di chip non solo per Apple ma anche per gli altri colossi mondiali dell’hi-tech.

Il guaio per gli Usa è che, mentre Intel ha sempre prodotto chip sul suolo americano, cioè ha sfornato semiconduttori ‘made in Usa’, Tsmc produce a Taiwan e Samsung, il terzo produttore mondiale, in Corea del Sud.Di qui la decisione del Congresso di aiutare finanziariamente i produttori di chip Usa, anche alla luce dei rischi di interruzione della catena di approvvigionamento emersi con la crisi del Covid. 

La notizia però ha spinto Tsmc ad annunciare la sua intenzione di costruire un impianto in Arizona al costo di 12 miliardi di dollari nel prossimo decennio. Tutto bene? Mica tanto. Secondo il Wall Street Journal, Tsmc, che è il maggior produttore di chip per Huawei, ha fatto questa mossa, non solo per prendersi una fetta degli aiuti Usa ma anche, con grande tempestività, per impegnarsi maggiormente negli Stati Uniti proprio mentre Washington ha deciso una stretta repressiva contro i fornitori di Huawei. Inoltre Tsmc prevede di produrre solo 20.000 wafer al mese, pochi secondo il Wsj, per il quale l’azienda taiwanese non intenderebbe procedere a una produzione di alta qualità.

​Anche i cinesi puntano a intensificare chip home made

Secondo la Nikkei Asian Review, i principali produttori di chip cinesi stanno anch’essi accelerando gli sforzi per ridurre la dipendenza dai fornitori di apparecchiature statunitensi mentre Washington inasprisce i controlli sulle esportazioni. Semiconductor Manufacturing International (Smic), il principale produttore di chip a contratto in Cina, e Yangtze Memory Technologies, il primo produttore di memorie flash 3D Nand del Paese sono state tra le prime aziende a prefiggersi obiettivi ambiziosi per testare apparecchiature ‘made in China’ e non statunitensi nelle loro linee di produzione. A innescare tutto ciò, naturalmente, è stato il divieto Usa a Huawei di usare tecnologia a stelle e strisce nei semiconduttori, nonchè le indiscrezioni secondo cui anche Smic avrebbe potuto fare la stessa fine.

Nvidia compra britannica Arm e si apre un problema 

Nvidia ha confermato che intende acquistare il gigante dei chip britannico Arm per 40 miliardi di dollari dalla giapponese SoftBank. Con questa mossa il primo produttore al mondo di schede grafiche e Gpu mette le mani sui processori di Arm, cioè sui prodotti che la società britannica vende a Apple, Samsung e Qualcomm, per produrre a loro volta i loro smartphone e dispositivi mobili.

Il guaio è che sono tutti grossi nomi e che tutte queste aziende sono rivali di Nvidia, cioè utilizzano e probabilmente continueranno a farlo anche in futuro i processori di Arm, o licenze di quest’azienda. Tutto ciò apre un grosso problema. Nvidia dovrà trovare un delicato equilibrio tra la gestione della propria attività di chip e il consentire a Arm un certo grado di indipendenza. Non sarà facile e entrambe le società se ne rendono conto. L’amministratore delegato di Nvidia, Jensen Huang, ha dichiarato che intende mantenere pienamente le “licenze aperte e la neutralità” di Arm, mentre il ceo di Arm Simon Segars ha aggiunto che “fare qualsiasi altra cosa” significherebbe “distruggere valore”. 

Anche Usa in corsa per diventare produttore di terre rare 

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, utilizzati in settori diversi, dall’elettronica più commerciale, alla più alta tecnologia, alle attrezzature militari. Oltre il 90% dei veicoli ibridi ed elettrici utilizza magneti a base di terre rare nei loro motori, mentre ogni jet da combattimento F-35 richiede 420 libbre di materiale di terre rare. Ma quali sono i nomi di questi minerali? Scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tallio, itterbio e lutezio.

Si tratta di nomi praticamente sconosciuti, anche se ormai questi minerali sono ricercatissimi e valgono molto più dell’oro. Nonostante il loro nome, le terre rare sono relativamente abbondanti. Ma tendono ad essere ampiamente disperse, il che le rende difficili da estrarre con profitto. Il processo di separarle in prodotti commercialmente validi pone anche sfide tecniche e ambientali, che hanno causato non poche difficoltà a chi si è avvicinato a questo business. 

Ebbene, negli Usa praticamente non si estraggono terre rare, o meglio, sono passati cinque anni da quando in questo paese si è smesso di estrarre terre rare dalla miniera di Mountain Pass nel deserto del Mojave in California. Molycorp, così si chiamava l’azienda mineraria Usa, l’unico grande produttore di terre rare negli Stati Uniti, è crollato sotto il peso di un debito di 1,7 miliardi di dollari. Il fallimento ha reso gli Stati Uniti quasi interamente dipendenti dalla Cina per la fornitura di questi 17 elementi metallici incorporati nella maggior parte dei prodotti high-tech. 

Ora, mentre le relazioni tra Washington e Pechino si vanno sempre più deteriorando, il governo Usa ha deciso di sostenere la resurrezione di Mountain Pass, che fino agli anni ’80 era il più grande produttore mondiale di terre rare. Il motivo? Il pericolo di un’interruzione delle catene di approvvigionamento palesato dalla pandemia di coronavirus. 

Il Pentagono ha accettato di finanziare MP Materials – una società sostenuta da private equity, che ha acquistato la miniera per 20,5 milioni di dollari nel 2017 e ha riavviato gli scavi – per progettare il primo impianto di lavorazione di terre rare pesanti negli Stati Uniti nel sito. Sta anche sostenendo un progetto simile in Texas proposto dalla società australiana Lynas.

E gli Usa hanno motivato tali iniziative con la preoccupazione che la Cina possa mettere ko la difesa americana e altre industrie della sicurezza nazionale, interrompendo le forniture di terre rare. Washington non è la sola ad essere preoccupata per il controllo di Pechino sulle terre rare. La Commissione europea sta lavorando a una strategia per le materie prime che mira a svezzare l’industria nazionale dalla dipendenza dalla Cina rafforzando la collaborazione industriale e fornendo finanziamenti sostenibili per i nuovi produttori.

L’Australia, che detiene un sesto dei depositi mondiali di terre rare, ha collaborato con il governo degli Stati Uniti per reperire nuovi depositi e supportare gli operatori del mercato. E la Russia ha svelato un piano di terre rare da 1,5 miliardi di dollari per tentare gli investitori con agevolazioni fiscali e prestiti a basso costo. Insomma, le terre rare hanno affiancato il silicio nella ‘chip war’, che è diventata sinonimo di guerra per la supremazia tecnologica mondiale. 

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Fonte: economia agi