CENT’ANNI DI PASOLINI. Il profeta dell’omologazione
Il ruolo profetico, la capacità di aver interpretato gli elementi del progresso che segnarono gli anni Cinquanta e Sessanta in Europa come preludio a un bieco conformismo, all’invasione consumistica, al trionfo di un liberismo selvaggio, voracemente affamato di welfare e diritti, fanno di Pasolini uno dei pochi veri intellettuali del Novecento italiano
di Gianni De Iuliis
Poeta? Sceneggiatore? Attore? Regista? Scrittore? Drammaturgo? Pittore? Romanziere? Linguista? Traduttore? Saggista?
Forse tutto questo. E tutto contemporaneamente.
Intellettuale.
Forse l’ultimo intellettuale italiano? Forse l’intellettuale italiano del XX secolo?
La mia generazione non ha potuto studiare Pasolini a scuola. Il programma di Letteratura Italiana nei Licei all’epoca (ho preso la maturità nel 1985, proprio dieci anni dopo la sua morte) a malapena sfiorava il Decadentismo. Nell’ultimo anno si studiava, in maniera approfondita a dir il vero, Alfieri, Foscolo, Monti, Leopardi, Manzoni, Verga, Carducci, Pascoli. Poi velocemente si citava D’Annunzio (controvoglia) e Svevo. E forse un cenno a Ungaretti. Conoscevamo a memoria interi passi della Commedia (all’epoca ancora Divina) di Dante, il proemio dell’Orlando Furioso, il Cinque maggio di Manzoni, il proemio dell’Iliade nella traduzione del Monti e altre liriche famose, ma non si andava oltre la fine dell’Ottocento (i più fortunati il primo ventennio del Novecento).
Ho poi conosciuto Pasolini all’Università. E poi ho proseguito da autodidatta. Quindi è nato un forte interesse verso questo intellettuale. Ho letto Ragazzi di vita, Una vita violenta, molte sue poesie, ho visto Accattone, Uccellacci e uccellini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ho letto molte critiche sul Nostro e ho visto i due film a lui dedicati di Marco Tullio Giordana e Abel Ferrara.
Vorrei ricordarlo oggi partendo da un’intervista di Asor Rosa (Repubblica, 28 ottobre 2015) e da una canzone di De André, Una storia sbagliata.
Asor Rosa non ha mai apprezzato l’opera letteraria di Pasolini. Nel suo famoso saggio del 1965, Scrittori e popolo, analizza il tema populista nella letteratura italiana del Novecento, demistificando alcuni «luoghi comuni» di quella cultura e denunciando quella valorizzazione mitica del «popolo» da un punto di vista piccolo-borghese.
E Pasolini a suo giudizio è proprio il simbolo di quella cultura. Nella sua intervista «Pasolini è colui che punta a scavarsi un posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale». Lo accusò di essere un piccolo-borghese, che all’epoca, a sinistra, era un grave insulto. E cita nell’intervista un episodio: «ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Ma sempre in quella intervista rimpiange il Pasolini profetico, colui che «riuscì a cogliere meglio di chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di previsione impressionante. Il profeta dell’omologazione».
Proprio questo ruolo profetico, questa capacità di aver interpretato gli elementi del progresso che segnarono gli anni Cinquanta e Sessanta in Europa come un preludio a un bieco conformismo, all’invasione consumistica, al trionfo di un liberismo selvaggio, voracemente affamato di welfare e diritti, rappresenta a mio giudizio l’elemento distintivo che fa di Pasolini uno dei pochi veri intellettuali del Novecento italiano. E proprio nel film di Abel Ferrara ricordo una scena in cui Pasolini profeticamente immagina uomini con i cellulari. Una scena che esprime perfettamente il senso più profondo dell’intellettualità.
Un film molto criticato. Critiche cui il regista rispose così: «Non faccio il detective, non indago, racconto l’ultimo giorno di un genio». Proprio tale frase ci trasporta al pezzo di De André, citato prima, Una storia sbagliata.
De André scrisse questa canzone in onore di Pasolini come disse in un’intervista: «Ricordo che decidemmo tout-court di fare la canzone su Pasolini perché la sua morte ci aveva resi quasi come orfani. Ne avevamo vissuto la scomparsa come un grave lutto, quasi come se ci fosse mancato un parente stretto». Continua il cantautore nella sua intervista: «Un altro aspetto tragico è legato al fatto che della morte di un grande uomo di pensiero sia stata fatta praticamente carne di porco da sbattere sul banco di macelleria dei settimanali spazzatura e non solo di quelli. Il verso “È una storia per parrucchieri” vuol dire che è una storia che purtroppo la si leggeva allora e ogni tanto la si legge ancora oggi sulle riviste equivoche, mentre si aspetta di farsi fare la barba oppure la permanente».
Troppo insomma è stato scritto sulla sua morte, con il consueto italico corollario di complottismo e ideologismo da mercato ortofrutticolo; troppo poco sulla sua opera e sul segno che ha lasciato. Forse perché intere generazioni non l’hanno potuto studiare a scuola e associano Pasolini solo alla vicenda della spiaggia dell’Idroscalo di Ostia.
Concludo con Asor Rosa: «Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere consumato come un prodotto di massa».