Riflessioni profonde sul senso della vita, ma non solo. Nel giardino dei ciliegi, in scena al Piccolo Teatro della Città, di Catania, con la regia di Nicola Alberto Orofino e la convincente performance del suo gruppo di attori, c’è questo, ma anche tanto spettacolo, leggerezza e sottile umorismo, qualità che al teatro giova sempre.
Quello di Cechov è un testo corale, ambientato nella Russia dei primi anni del secolo scorso, senza un vero protagonista e senza una vera e propria trama, il cui più profondo (ma non l’unico) messaggio è l’ineluttabilità del cambiamento. A esso ci si può piegare con la nonchalance di una decadente aristocrazia o adattare con la concretezza e lungimiranza dei nuovi ricchi. Ma si può anche reagire con la forza d’animo di chi, giovane e innamorato della vita, si proietta in scenari indefiniti con determinazione e risolutezza. Uno scenario a 360 gradi.
Il giardino dei ciliegi è il luogo in cui si consumano le angosce e gli scontri fra la pletora di personaggi accorsi per un’ultima réunion, prima dell’inevitabile vendita all’asta e si trova nella fredda campagna russa, sferzata da gelidi venti. In esso si incontrano aristocratici sognatori, donne dilaniate da tragedie familiari e sentimentali, servi e parvenu, un microcosmo eterogeneo che si difende dal nuovo rifugiandosi nell’atarassia e sfida il futuro con le armi spuntate della spocchia e del disprezzo del denaro. Perdendo. In una pièce senza eroi, è inevitabile che la vera protagonista sia la “normalità”. In Cechov la normalità appartiene al mondo dell’esistenza, dove tutto è a un tempo semplice e complesso, serio e ridicolo. In questa realtà domina l’egoismo e trionfa l’interesse personale. A volerla buttare sul filosofico si potrebbe pensare a Nietzsche, al suo pensiero rivoluzionario, che pure è citato nello spettacolo, così come addentrarsi in spazi storico-politici, data anche la vicinanza con la rivoluzione russa. Nei piani alti della cultura, del resto, tutto si tiene e il feedback fra le varie discipline è sempre molto intenso.
La regia di Orofino, però non si presta ad alcuna digressione “engagée”: l’opera di Cechov, non perde la sua identità di commedia (o tragedia, fate voi) dei paradossi e dei contrasti personali, e a ciò resta fermamente ancorata. Ma -ed è questa la novità- si affranca dal tanfo di vodka che gravitava su alcune vecchie (ancorché illustri) interpretazioni del testo e consegna inquietudini, irresolutezza, gioia e angoscia, spensieratezza, aristocratica prodigalità, così come, sull’opposto versante, attaccamento alla roba e taccagneria a una generazione “spritz”, a persone in carne e ossa, di inedita freschezza e modernità di tratti. Ci sembra un bel modo di attualizzare vecchi testi, anche senza ricorrere a pesanti alchimie sceniche (alla Livermore, per intenderci) che possono anche apparire provocatorie e sopra le righe. Orofino è maestro in questo. La percezione dominante oltre la linea del palcoscenico è quella di osservare non personaggi, ma uomini e donne in carne e ossa. Lo spettacolo, preceduto da un “corto” che ha messo in luce le qualità di 4 giovani attori, ha un andamento dinamico, quasi frenetico, che non lascia un istante di tregua allo spettatore. I personaggi corrono, si inseguono, urlano, si picchiano, recitano. Ma tutto si svolge con toni quasi surreali e consegna allo spettatore un’immagine velatamente onirica. Essenziale (ma questo è ormai un marchio di fabbrica del regista) la scenografia. Di sicuro effetto il sibilo dei venti riprodotti dai tecnici del suono, a cui viene attribuito il messaggio del cambiamento imminente. Brevi ma intense -mai lamentose e lacrimevoli- le pause di riflessione “seria” che vengono intercalate nello spettacolo. Il messaggio culturale di Cechov si può dire così consegnato nella sua interezza. Quello teatrale di Orofino, pure.
Alfio Chiarello