Cassazione: Centrale Rischi, nessun automatismo nell’iscrizione. Accertare l’insolvenza.


In tema di segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, la Suprema Corte ha costantemente affermato che l’appostazione del credito a sofferenza, richiesta dal punto 1.5 delle istruzioni impartite agl’intermediari creditizi con la circolare n. 139 del 1991 (nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, aggiornato al 22 giugno 2004), non può essere fatta discendere dalla sola analisi dello specifico o degli specifici rapporti in corso di svolgimento tra la singola banca segnalante ed il cliente, ma implica una valutazione della complessiva situazione patrimoniale di quest’ultimo: l’accostamento tra “stato d’insolvenza” (anche non accertato giudizialmente) e “situazioni sostanzialmente equiparabili”, risultante dalla lettera della predetta disposizione, ha indotto infatti a privilegiare una nozione di “sofferenza” più sfumata rispetto a quella d’insolvenza prescritta dall’art. 5 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 ai fini della dichiarazione di fallimento, escludendosi quindi la necessità di un giudizio d’incapienza del debitore ovvero di definitiva irrecuperabilità del credito, e richiedendosi invece una “valutazione negativa di una situazione patrimoniale apprezzata come “deficitaria”, ovvero, in buona sostanza, di “grave (e non transitoria) difficoltà economica“” del debitore.

In tal senso depone d’altronde, oltre alla necessità di attribuire un significato alla distinta menzione delle “situazioni sostanzialmente equiparabili” allo stato d’insolvenza, contenuta nella norma in esame, il rilievo di ordine logico secondo cui, ove lo stato d’insolvenza rilevante ai fini della segnalazione si identificasse con quello richiesto per la dichiarazione di fallimento, verrebbe meno la stessa utilità del servizio di centralizzazione dei rischi, dal momento che, potendo il debitore essere legittimamente appostato a sofferenza soltanto nel caso in cui versasse in stato di decozione, gli altri intermediari si troverebbero nell’impossibilità di attivarsi in tempo utile per cautelare la propria posizione. La funzione della segnalazione non è infatti collegata alle procedure concorsuali, ma alla gestione ed all’analisi del rischio di credito, consistendo, come si evince dal punto 2 delle istruzioni, nella creazione di un sistema informativo sull’indebitamento della clientela, volto a fornire agl’intermediari partecipanti un’informativa utile, anche se non esaustiva, per la valutazione del merito di credito della clientela.

In quest’ottica, è stata esclusa innanzitutto la rilevanza della mera sussistenza di un inadempimento, oppure di uno stato d’illiquidità non strutturale ma meramente contingente o ancora di un mero ritardo nei pagamenti, trattandosi di situazioni che, ove non risultino correlate ad un’oggettiva difficoltà di far fronte alle proprie obbligazioni, determinano un rischio certamente attuale, ma sostanzialmente generico per il recupero del credito, e quindi inidoneo a giustificare la segnalazione; si è reputata altresì ininfluente l’eventuale insussistenza di un’oggettiva previsione di perdite, affermandosi che la sofferenza può sussistere anche nel caso in cui il patrimonio del debitore lasci ancora intravedere, pur nel contesto della sua negatività, margini oggettivi di rientro (magari attraverso mezzi non del tutto “normali”), dal momento che ciò che conta è la chiara e documentabile esigenza che allo stato detto patrimonio non si affidi alla previsione di una capacità di rientro “sicuro”: significativa, in proposito, è la precisazione contenuta nelle istruzioni, secondo cui la sofferenza può essere ritenuta sussistente “indipendentemente dalle eventuali previsioni di perdita formulate dall’azienda”, nonché dall’esistenza di eventuali garanzie, reali o personali, poste a presidio di crediti.

A tali principi – secondo gli Ermellini – si è correttamente attenuta la sentenza impugnata, la quale, nel verificare la rispondenza della segnalazione effettuata dalla ricorrente ad un’effettiva situazione di sofferenza, nel senso risultante dalle istruzioni della Banca d’Italia, ha posto in rilievo il carattere volontario dell’inadempimento della società correntista, giustificato dalle contestazioni insorte nel corso del rapporto, escludendone la riconducibilità ad una situazione oggettiva d’incapacità finanziaria, anche in ragione dell’esiguità del debito residuo.

La Corte territoriale ha infatti rilevato, per un verso, il carattere controverso del debito segnalato, in quanto derivante da un rapporto di conto corrente assistito da un fido le cui condizioni avevano costituito oggetto di contestazioni fin dall’origine della vicenda, dando atto anche della pendenza di un giudizio per la dichiarazione di nullità delle relative clausole contrattuali, in particolare di quella che disciplinava il tasso d’interesse, e della conseguente incertezza del saldo del conto, risultante dall’applicazione del tasso contestato. Per altro verso, essa ha ritenuto provata la capacità della debitrice di far fronte all’adempimento, evidenziando i versamenti da essa effettuati nel corso del rapporto e la disponibilità manifestata al pagamento del residuo, ivi compresi gl’interessi contestati e detratta soltanto la capitalizzazione trimestrale degl’interessi, nonché l’inferiorità del saldo risultante dalla correzione operata dal c.t.u. nominato nel predetto giudizio, rispetto a quello calcolato dalla Banca ed allo stesso importo del fido da quest’ultima concesso.

E’ pur vero che, ai fini del riscontro della predetta capacità, la sentenza impugnata non ha proceduto ad una specifica indagine in ordine alla consistenza del patrimonio della debitrice ed alle sue disponibilità finanziarie, accertandone la sussistenza in via sostanzialmente presuntiva, attraverso un iter logico fondato sulle stesse vicende del rapporto di conto corrente; peraltro, indipendentemente dalla considerazione che, nei casi in cui è ammesso il ricorso alle stesse, le presunzioni costituiscono un mezzo di prova di valore non inferiore a quello degli altri previsti dal codice civile, a condizione che risultino gravi, precise e concordanti, le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito non sono state validamente censurate dalla ricorrente.

Quest’ultima, infatti, nel denunciare il vizio di motivazione della sentenza impugnata, non ha messo in alcun modo in discussione il ragionamento sotteso al predetto accertamento o gli elementi di fatto su cui è fondato, ma si è limitata a far valere l’omesso esame della relazione depositata dal c.t.u. nominato nel corso del giudizio, riportandone il contenuto in maniera assai incompleta, e comunque tale da non consentire di apprezzare la decisività delle relative risultanze; la narrativa del ricorso contiene la trascrizione delle sole conclusioni rassegnate dal c.t.u., non accompagnate dalle risultanze delle indagini compiute, con la conseguenza che risulta impossibile individuare gli elementi di fatto addotti a sostegno dell’affermazione secondo cui negli esercizi in cui si è svolto il rapporto di conto corrente la situazione finanziaria della società debitrice sarebbe stata caratterizzata da uno stato di crisi finanziaria e di notevole illiquidità, in quanto la stessa non sarebbe stata in grado di mantenere un adeguato equilibrio finanziario attraverso la produzione di ricavi derivanti dall’attività propria; a tale trascrizione la ricorrente aggiunge i dati relativi al patrimonio netto della società risultanti dai bilanci degli esercizi 2004 e 2005, senza neppure specificare in quale fase processuale gli stessi sono stati prodotti e dove è possibile reperirli, con la conseguenza che il motivo risulta, nel suo complesso e nei singoli argomenti dedotti, privo di specificità.

Il ricorso per cassazione con cui si denunci l’omesso esame di documenti deve infatti contenere tutti gli elementi necessari a consentire l’individuazione delle ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata, nonché a permettere la valutazione della loro fondatezza, senza che risulti necessario accedere a fonti esterne, e quindi ad elementi o atti attinenti al giudizio di merito, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente, oltre agli atti processuali ed ai documenti su cui il ricorso è fondato, la fase in cui ne è avvenuta la produzione, riproducendoli direttamente nel ricorso o indicando la sede in cui è possibile reperirli, tra quelli prodotti dallo stesso ricorrente o dalla controparte, con specificazione della parte del documento cui fa riferimento.

Il ricorso è stato pertanto rigettato.

 

Fonte: Dirirtto e risparmio