Cassazione: alla banca la prova della legittimità del proprio credito


Per la contestazione di un’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi e l’applicazione di un tasso superiore a quello stabilito dalla legge, la banca non può difendersi sostenendo che la previsione di un arco temporale lungo per la conservazione dei documenti (10 anni)  vada interpretata  come una limitazione dell’onere posto a carico della banca stessa di dimostrare il credito. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18541/2013, respingendo il ricorso dell’istituto di credito. La Corte ricorda infatti che la banca è tenuta “a fornire la prova integrale del proprio credito, non potendo sottrarsi a tale onere, nel giudizio a cognizione piena, quando le contestazioni del debitore riguardano l’intera durata del rapporto”. “Pertanto – secondo i giudici – deve concludersi per la manifesta infondatezza della adombrata eccezione d’illegittimità costituzionale dell’art. 2220 cod. civ., correlato all’art. 50 TU n. 385 del 1993, dovendosi ribadire la radicale diversità tra le esigenze probatorie (di natura sommaria, o fondate sulla fede privilegiata attribuita ad alcuni documenti unilateralmente provenienti dal creditore) della fase monitoria da quelle del giudizio a cognizione piena, ove occorre dimostrare l’esistenza e l’entità del proprio credito mediante la puntuale applicazione dell’art. 2697 cod. civ.”.