AGI – Sessanta milioni di dischi venduti, oltre 500mila ascolti mensili su Spotify, numeri che dovrebbero appartenere a chi nella vita, e anche con molto successo, ha fatto solo musica.
Sono questi i dati invece riferiti all’attività musicale di Raffaella Carrà, una delle signore della tv italiana, una artista capace di tradurre in musica ciò che percepiva nell’ideazione e conduzione di programmi televisivi: il desiderio del pubblico, la capacità di andare sempre un passo avanti al presente, conquistando il mercato estero, in particolare spagnolo e sudamericano, ben prima di Eros Ramazzotti, Laura Pausini o i Maneskin.
La televisione che emoziona come fosse musica, l’intrattenimento, il varietà, che diventa cultura popolare alta, indimenticabile, iconica e, soprattutto, indistinguibile, la sigla di uno show televisivo, ideata per aprire una parentesi di spensieratezza nella vita degli italiani, che diventa intellettualismo, avanguardia, cronaca anche; un po’ come successo al primo vero esordio discografico, quel “Ma che musica maestro!”, sigla del “Canzonissima” del 1970 di Corrado, cantata a pancia scoperta, sconvolgendo il paese con un ombelico che entrerà negli annali della storia della tv, ma mandando in orbita l’audience della RAI, che dinanzi a quei numeri dovette piegarsi e riporre la mannaia.
Che fosse per merito di quel lembo di pelle mostrato in diretta alla nazione intera o meno, “Ma che musica maestro!” vendette 200mila copie, la musica che va a braccetto con l’attualità, che declina lo scalpore dei tempi che cambiano, tutte cose che sono capitate mille volte nella storia della musica, ma quante di quelle canzoni erano state pensate come apertura per uno show di una tv di stato? Forse nessuna.
Nel 1971 la storia si ripete ma la Carrà alza ancora la posta con “Tuca Tuca”, brano scritto dal genio televisivo Gianni Boncompagni per il quale Don Lurio si inventò una coreografia che prevedeva un continuo sfiorarsi dei due giovani ballerini protagonisti, nello specifico la Carrà ed Enzo Paolo Turchi. La storia della musica col passare degli anni ci regalerà una serie di danze provocanti di gruppo dalla consistenza mortificante, il “Tuca Tuca” era una provocazione garbata che la RAI ovviamente provò a censurare ma che venne salvata, come raccontò in un’intervista la Carrà anni dopo, dall’intervento di Alberto Sordi, uno al quale nessuno poteva dire di no, nemmeno la televisione di stato.
“So che hai fatto ‘na cosa – le disse una sera a cena, mentre con Boncompagni giocavano con il baracchino dei radioamatori – vengo da te a Canzonissima, ma solo se possiamo ballarla”; così fu e il resto è storia. La Carrà era capace di tale audacia senza mai nemmeno sfiorare l’offesa al pubblico, un superpotere che la accompagnerà per tutta la vita, così non sorprende che proprio quell’anno la premiata ditta formata insieme al compagno Boncompagni e a Franco Pisano che scriveva le musiche, ci prende gusto e butta sul mercato “Borriquito”, che sarà il primo successo latino della Carrà.
Anche perché poi quella che era già diventata la Raffaella nazionale è la stessa che pubblica “Strapazzami di coccole” duettando senza sbavature con Topo Gigio, il più amato pupazzo della tv anni ‘80/’90.
Ma l’essenza musicale della Carrà andava decisamente oltre, non perdeva il confronto con nessuno, anche se lei di mestiere faceva altro; forse la scintilla con la musica, che occuperà parte della storia di Raffaella Carrà in quegli anni, scatta nel 1974 quando Guido Maria Ferilli scrive una melodia che si accorge, strimpellando, che cattura immediatamente l’attenzione dei ragazzini che giocano a pallone nel cortile sotto casa; si rivolge per il testo ad Andrea Lo Vecchio, che aveva già scritto capolavori come “Donna felicità” per i Nuovi Angeli, “Luci a San Siro” per Vecchioni ed “E poi…” per Mina, e insieme cercano una voce per un pezzo che effettivamente ha un sound particolare, fino a quel momento poco masticato dall’industria discografica italiana, si intitola “Rumore”.
Storia di una donna che lascia il compagno e decide di “fare da sé” ma poi “da sola non mi sento sicura, mai”, argomento discretamente scottante nel ’74, anni in cui la lotta femminista viene bilanciata da una società che faticosamente si porta avanti nelle battaglie di parità di genere. Non può essere un caso che alla fine per cantare la canzone venga scelta Raffaella Carrà, un personaggio che era libero di dire tutto senza che nessuno si sentisse apertamente provocato.
“Rumore” venderà oltre dieci milioni di dischi, sarà tradotto quasi immediatamente in inglese, francese e spagnolo e rappresenterà uno dei primi esempi assoluti di disco music all’italiana, circa una decina di anni prima che il genere esplodesse in Italia.
Due anni dopo Raffaella Carrà è a tutti gli effetti una cantante, di gran lunga la più famosa italiana all’estero, un successo certificato da “A far l’amore comincia tu”, anche questa la storia di una donna audace, talmente padrona della propria vita e della propria sessualità, da richiedere in musica, espressamente, al proprio uomo di prendere iniziativa.
Le vendite si raddoppiano, sono 20 milioni, la Carrà è invitata alla storica trasmissione “Top Of The Pop” visto che la versione inglese del brano “Do It Do It Again”, raggiunge la seconda posizione nella classifica, mai nessun italiano prima di lei c’era riuscito. Il brano sarà contenuto nel disco “Forte forte forte”, arrangiato da Franco Bracardi e che vantava tra gli autori nomi come lo stesso Gianni Boncompagni, naturalmente, e poi anche Shel Shapiro, e Cristiano Malgioglio, un successo letteralmente planetario, entrato non solo nella nostra storia, tant’è che nel 2011 il dj di fama mondiale Bob Sinclar ne produce una versione dance, forse non bellissima, ma che calza a pennello per la scena iniziale del film premio Oscar di Paolo Sorrentino “La grande bellezza”.
Nel 1977 esce “Fiesta”, altro evergreen della discografia della Carrà nel quale si strizza l’occhio ai ritmi spagnoleggianti con un’autenticità che non può che farla diventare da quelle parti una vera autorità; il tema è sempre di matrice espressamente femminista, una donna si rende conto di poter vivere felicemente anche lontana dall’uomo al quale è legata ma la tradisce, e allora festeggia.
Nel 1978 forse la Carrà addirittura si supera con l’incisione di “Tanti auguri”, canzone ideata per lo show televisivo “Ma che sera”, girato tra i palazzi dell’Italia in miniatura durante i giorni del sequestro Moro, e per questo molto discusso; perché, se il tema è di nuovo quello della donna libera, indipendente e felice di esserlo, anche da un punto di vista strettamente sessuale, l’effetto sociale che il brano esercita sul pubblico è strabiliante, il verso del ritornello “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, l’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu” entra nel comune parlare degli italiani, in particolare della comunità LGBT che in quelle parole trova conforto e quasi un inno per la loro purtroppo sempreverde battaglia, non è un caso che della comunità Raffaella Carrà sarà ufficialmente un’icona per sempre.
Quella donna che canta l’amore libero e indipendente tornerà in classifica nel 1980 con “Pedro”, stavolta si trova in vacanza dove conosce un giovanotto che si propone prima come guida turistica e poi come amante, la linea melodica del brano non è altro che la versione ritmata della “Siciliana”, composizione che si trova nel Concerto per Flauto No 2 BWV 1031 di Johan Sebastian Bach.
Il citazionismo è una chicca che non manca quasi mai nell’opera della premiata ditta Boncompagni/Bracardi, due anni dopo infatti, siamo nel 1982, affidano alla voce di Raffaella Carrà un’altra perla dal titolo “Ballo ballo”, si torna in questo caso alla musica ideata per la tv che finisce per diventare hit; in questo caso la strofa omaggia quasi dichiaratamente (ma non verrà mai confermato) “Eleanor Rigby” dei Beatles.
Questo fu forse l’ultimo vero successo di Raffaella Carrà cantante, perlomeno l’ultimo successo ad inserirsi in quella lista di brani che girovagavano liberi e coinvolgenti di casa in casa ancor prima di riflettersi in classifiche e relativi numeri.
Brani che raccontavano qualcosa del carattere degli italiani ma soprattutto qualcosa del carattere degli italiani che il perbenismo di certi segmenti di tempo vissuti nel nostro paese non permetteva venisse fuori, ma che in qualche modo doveva sgorgare e lo ha fatto anche, forse soprattutto, tramite il modo di intendere lo spettacolo di Raffaella Carrà.
Non è un caso se queste canzoni non siano mai state dimenticate, anzi, vengano riutilizzate per raccontare ancora quella parte di noi incapace di farsi sentire, ancora oggi c’è bisogno di brani che raccontino in maniera così garbata e spensierata la lotta femminista o per i diritti di chi vuol fare l’amore “da Trieste in giù” e con chi gli va.
Source: agi