«Capodanno a maggio»


«È una squadra che racconta le storie di ragazzi nati in luoghi difficili, non sono i soliti giocatori che arrivano dai reclamizzati paesi del calcio»

Francesca Sabella

Maurizio De Giovanni, cosa rappresenta questo scudetto? «È un’enorme, meravigliosa, importantissima vittoria sportiva. Vorrei evitare di annettere a questa vittoria significati di riscatto sociale, di acquisizione di una coscienza civile. Sono argomenti diversi. Il riscatto avvenne alla fine degli anni Ottanta quando Napoli era in ginocchio dopo il terremoto, quando la camorra mise le mani sui fondi per la ricostruzione. Oggi Napoli non è quella di allora. Oggi la città ha condiviso una spettacolare vittoria sportiva, è una città che ha la consapevolezza di essere una grande capitale d’Europa, l’unica città con un incremento del turismo a tre cifre percentuali».
Una spettacolare vittoria dopo 33 anni…
«Sì, ma ci tengo a parlare del tempo. Questi 33 anni non sono stati un intervallo. Uno pensa all’ultimo scudetto vinto dal Napoli e pensa questo. Sono stati una storia. Sono stati una sequenza di illusioni e delusioni, di successi e sconfitte, di piccoli mattoni messi per costruire un edificio che poi puntualmente crollava. È difficile far capire cosa sono stati questi anni. Non sono stati un lungo sonno e che solo adesso ci fa svegliare e ricordare il pregresso. È stato un tempo di costruzione, per capire l’esplosione di gioia, l’emotività di questa festa oggi, bisognava esserci ieri. Chi guarda da fuori questa felicità, pensa: sono i soliti napoletani, festa, farina e forca che quando è il momento festeggiano. Non è vero. È un risultato faticosamente messo insieme nel tempo: il Napoli negli ultimi dieci anni ha conquistato quattro volte il secondo posto e tre volte il terzo. E sappiamo bene che i successi degli altri sono sotto osservazione in questo momento, bisogna anche capire come hanno vinto… Quindi, tutto si può dire tranne che questo del Napoli sia stato un successo inatteso»
Qual è il simbolo del tricolore azzurro?
«Le direi Luciano Spalletti, ma le dico Aurelio De Laurentiis. Anzi, sono loro due i simboli. Spalletti è il più anziano allenatore italiano a vincere lo scudetto per la prima volta, è la bravura di un uomo che costruisce nel tempo il proprio successo e che arriva fino a questa vittoria. E dire Spalletti è rivoluzionario, solitamente è un campione il simbolo di una squadra e sicuramente il Napoli ne ha tanti ma ha soprattutto un “cuoco” che ha messo insieme gli ingredienti in maniera perfetta. E poi De Laurentiis: il successo di una programmazione societaria, di una società che ha costruito tutto questo».
La differenza con gli altri scudetti vinti dal Napoli?
«Questa volta non abbiamo comprato Diego Armando Maradona e costruito una squadra intorno a lui. Questa è una squadra pianificata, è un successo che arriva nel momento in cui il Napoli ha il 30% in meno di ingaggi rispetto all’anno scorso. È come se si vincesse il Gran Premio con una macchina di serie. C’è stata una programmazione imprenditoriale attenta e consapevole. È un Napoli che da quindici anni è sempre presente nelle coppe europee».
Un Napoli che racconta anche tante storie di ragazzi venuti da Paesi difficili e che oggi sono campioni. Vero?
«Sì. Ci sono tantissime storie dentro questa squadra. Victor Osimhen, un ragazzo nigeriano che viene dal buio di un mondo veramente complicato e che cresce portando l’acqua sulla testa. C’è Kvaratskhelia che arriva dalla Georgia che certamente non è un paese all’attenzione del mondo, eppure porta la sua classe. Ma c’è anche il capitano Di Lorenzo che arriva a venticinque anni in serie A e diventa il miglior laterale destro d’Europa, capitano silenzioso, vero, che motiva i compagni. È una squadra fatta da ragazzi che non arrivano dai reclamizzati paesi del calcio come l’Inghilterra, il Portogallo, l’Argentina. Sono giovani che sono cresciuti giocando a pallone per strada e sapendo che già solo poterci giocare era una conquista e non uno sport da liceo».
C’è qualcosa che l’ha fatta indignare in questa pazza gioia?
«Sì, i cori dello stadio. Sono una cosa vergognosa, un malcostume italiano al quale si sceglie di non mettere fine: un orrore. La tifoseria napoletana subisce questi insulti costantemente. I cori rappresentano una spaccatura del Paese».
Se questo scudetto fosse un film, quale sarebbe il titolo?
«Capodanno a maggio!». *

Fonte: Il Riformista