Capire il momento di Germania e Francia oltre gli allarmismi


di Pasquale Pasquino

Le recenti elezioni in tre Länder dell’est della Germania e la formazione del governo in Francia sollecitano qualche osservazione circa le critiche e gli allarmismi che hanno suscitato sulla stampa italiana e non solo. Le esagerazioni possono creare attenzione ma non sempre sono utili a capire la realtà.

La situazione nelle regioni della Germania dove si sono svolte da poco le elezioni è, certo, resa complessa dal fatto che sembra molto difficile costruire delle maggioranze per il governo di ciascun Land, poiché i partiti che formeranno le assemblee regionali sono particolarmente ostili fra di loro e le possibili coalizioni fragili, ammesso che si arrivi a costruirle. Ma non si è letto nella stampa italiana un dato rilevante. Gli abitanti e quindi gli elettori di Turingia, Sassonia e Brandeburgo non vanno al di là di circa il 10% della popolazione tedesca – ed è il caso di tener presente anche il restante 90%. È di bon ton oggi gridare al lupo, ma un po’ di dati di realtà sono utili. Inoltre, Boris Pistorius, l’attuale ministro socialdemocratico della difesa, e possibile candidato del partito alle elezioni del prossimo anno, è molto più popolare di Scholz e potrebbe aiutare il risultato della SPD. In sostanza, una nuova Große Koalition, verosimilmente con la guida di un cancelliere CDU, è perfettamente possibile e maggioritaria. Si consideri la mappa dei risultati elettorali delle elezioni europee in Germania del giugno scorso – l’ultimo dato rilevante relativamente al quadro politico del maggiore paese dell’Unione europea:

In cinque regioni su sei di quella che è stata a lungo la Germania comunista (con l’eccezione del Land Berlino) il primo partito è risultato la AdF (Alternativa per la Germania), partito nazionalista di estrema destra, mentre nel resto del Paese quasi dappertutto sono in testa le due formazioni democristiane di centro destra e pro-europee: la CDU e la bavarese CSU. Se si guarda ai risultati delle elezioni a livello nazionale i democristiani sono il primo partito con il 30% dei voti mentre i social democratici e i verdi insieme raggiungono il 26%, dunque il 56% percento senza contare il 5% dei liberali. AfD valeva in giugno sul territorio nazionale il 16%.

Il fenomeno politico più rilevante è, in realtà, il recentissimo partito di Sahra Wagenknecht, una costola del vecchio partito di estrema sinistra, che alle europee aveva ottenuto il 6% circa e che nei Länder dell’est ha più che raddoppiato i suoi voti – anche se è poco probabile che cresca in misura significativa nelle regioni occidentali del paese, nelle quali non vi è nessuna nostalgia per il sistema comunista. In conclusione, piuttosto che gridare al lupo per quanto riguarda una Germania che deriverebbe verso l’estrema destra bisognerà rifletter meglio sugli insuccessi della riunificazione tedesca e sulla importanza per quella parte del paese di una deriva verso un regime antiliberale – un po’ come in altri paesi dell’ex blocco sovietico. Angelo Bolaffi ha ragione nel dire che è come se ci ritrovassimo di nuovo di fronte a due Germanie.

Nel caso della Francia innanzitutto non è affatto sicuro che non sia riuscita l’operazione, in buona parte all’origine dello scioglimento dell’Assemblée nationale da parte di Macron, di spaccare i socialisti, fra l’ala socialdemocratica, che Raphaël Glucksmann aveva aggregato in occasione delle europee, e i cacicchi del partito, infeudato all’estremismo nichilista di Mélenchon. Questo si capirà solo nei prossimi mesi. Se si prendono sul serio i commenti ultra-elitisti della vita politica, quelli cioè nei quali non ci sono gli elettori, ma solo la classe politica e in Francia solo il presidente, non capiamo le reali difficoltà con cui si scontra sin dal 2022 il nostro più importante vicino.

Gli elettori hanno scelto di nuovo in giugno, dopo il 2022, una Assemblée nationale senza maggioranza assoluta. E nonostante il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, per la prima volta dal 1962 i politici transalpini devono acconciarsi, dopo le elezioni, al lavoro di mediazione e di compromessi, di cui si fanno carico praticamente quasi tutti i colleghi degli stati membri dell’Unione europea, dalla Germania alla Spagna. Se ne facciano una ragione. È questo che hanno deciso gli elettori e non li si cambia con prediche inutili. I critici francesi della situazione politica a Parigi dovrebbero dire che non va bene o che almeno non va loro bene la costituzione della 5a Repubblica, in base alla quale non solo il presidente è eletto per 5 anni e non è responsabile davanti al parlamento, ma è lui che nomina il primo ministro – libera l’Assemblea nazionale di votare la censura, cioè la sfiducia. Oggi questo vorrebbe dire una alleanza fra la destra nazionalista di Le Pen e una sinistra che ha smesso di essere una forza di governo e all’interno della quale il partitino socialista, nella speranza di sopravvivere, si è legato mani e piedi a Mélenchon.

I critici del governo Barnier non propongono nulla. La mozione di censura nei confronti del governo della tecnica Lucie Castets era sicura subito dopo l’investitura e i socialisti si sono opposti alla scelta di Macron di nominare primo ministro il socialista Cazeneuve. Le elezioni non sono possibili, in base alla costituzione fino al giugno del 2025. Se la classe politica francese pensa di uscire dalle sue difficoltà politiche ed economiche paralizzando il governo del paese condanna se stessa e la Francia al declino.

Certamente il partito di Marine Le Pen è più forte di prima, come hanno deciso gli elettori, ma non credo che a lei serva, per ora, votare insieme al gruppo parlamentare di Mélenchon la sfiducia al governo Barnier, cioè produrre la paralisi. Lei, in vista delle future elezioni presidenziali, lavora soprattutto alla sua normalizzazione del suo partito e a presentarlo come forza tranquilla.

Certo, la costituzione voluta da De Gaulle è oggi di fronte a una sfida inedita della sua storia.