BRUXELLES E IL SALTO IN AVANTI


Di Federico Fubini

Più che mai negli ultimi cinque anni, governare l’Unione europea è diventato l’arte di pensare l’impensabile. Se all’inizio del suo mandato qualcuno avesse detto a Ursula von der Leyen quali decisioni aspettavano la sua Commissione a Bruxelles, probabilmente neanche lei ci avrebbe creduto. Non avrebbe mai creduto che lei stessa avrebbe messo sul tavolo dei leader di 27 Paesi — quindi fatto approvare in tempi brevi — un eurobond da 800 miliardi di euro, di cui l’Italia ha una fetta di un quarto con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non avrebbe creduto che l’Unione europea, le sue istituzioni e i suoi governi, avrebbero fornito aiuti per oltre cento miliardi in un anno e mezzo all’Ucraina aggredita dalla Russia. Né avrebbe creduto che avrebbe aperto i negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione, come il Consiglio europeo ha deciso ieri.
Probabilmente Von der Leyen e Christine Lagarde, la presidente della Banca centrale europea, non immaginavano neanche che avrebbero rivisto un’inflazione a doppia cifra nei nostri Paesi, quindi l’aumento dei tassi d’interesse più rapido della storia recente, eppure nessuna crisi finanziaria.
Non è troppo dire che la sopravvivenza dell’Unione europea ora sarebbe in dubbio, se i suoi leader di questi anni non avessero saputo pensare l’impensabile. E poi non avessero saputo realizzarlo, di fronte a una successione di minacce.
Ma proprio per questo il rischio più grande adesso è pensare di aver fatto il più. Perché malgrado le enormi innovazioni politiche e istituzionali recenti, malgrado l’aver smentito i profeti di sventura e gli euroscettici, il difficile inizia adesso. E non inizia necessariamente sotto i migliori auspici.
I leader dell’Unione europea, a Bruxelles e nelle capitali, devono ancora iniziare a fare i conti con alcune delle contraddizioni del sistema. Quelle che riguardano l’Ucraina sono le più evidenti. Abbiamo annunciato al mondo che stiamo parlando con il governo di Kiev dell’ingresso nell’Unione in un futuro imprecisabile, ma nell’immediato non ne abbiamo tratto le conseguenze. In concreto, in marzo scorso ci eravamo impegnati a fornire all’Ucraina un milione di pezzi d’artiglieria entro un anno. Invece, a soli quattro mesi dalla scadenza, i Paesi europei hanno inviato meno della metà dei quantitativi promessi e gli ultimi ordini di munizioni collocati dai governi attraverso l’Agenzia europea della difesa — secondo Reuters — sono di appena 60 mila pezzi da 155 millimetri: abbastanza per resistere nelle trincee dell’Ucraina per una settimana, non di più. Non abbiamo accresciuto la nostra capacità di produzione di artiglieria, così importante in questa guerra. Ma senza un numero sufficiente di proiettili per respingere l’esercito russo, nessun negoziato di adesione di Kiev sarà mai credibile.
È forse tempo che i leader europei spieghino alle opinioni pubbliche che occorre difendere l’Ucraina non solo in nome dei valori, ma soprattutto dei nostri interessi. Se quella guerra fosse persa — qualunque forma dovesse prendere una sconfitta, e ce ne sono diverse possibili — allora un’ombra si stenderebbe direttamente sul futuro dell’Unione europea. Vladimir Putin non ha mai fatto mistero di volerla disgregare in nome della sua idea zarista di impero. E se l’aggressività del Cremlino non viene respinta, la sicurezza europea sarà sempre un’illusione.
Per questo si fatica a comprendere perché i governi dell’Unione sembrino riluttanti a prepararsi alle sfide che pure sono ben visibili all’orizzonte. Durante l’attuale vertice a Bruxelles o tra qualche settimana, troveranno senz’altro il modo di sbloccare i 50 miliardi di euro già impegnati per il governo di Kiev. Già, ma dopo? Non è troppo tardi per prepararsi a uno scenario nel quale Donald Trump torna alla Casa Bianca, ritira il sostegno all’Ucraina o addirittura ritira gli Stati Uniti dalla Nato. Allo stesso modo, non è tardi per prepararsi a vedere l’antieuropeo Geert Wilders come premier di un Paese fondatore quale l’Olanda e poi ad assistere a un successo dei sovranisti alle europee di giugno prossimo. In base agli attuali sondaggi di Politico
Europe, il gruppo di destra euroscettica «Identità e democrazia» (per intendersi, quello di Marine Le Pen, Alternative für Deutschland e Matteo Salvini) sarebbe terzo nell’emiciclo di Strasburgo dopo popolari e socialisti.
L’avverarsi di questi scenari non è sicuro, per fortuna. Ma è plausibile e l’Europa non può correre il rischio di lasciarsi sorprendere dagli eventi ancora una volta. Chi crede nell’Unione quale nostro spazio politico del presente e del futuro, deve abbandonare tutte le ambiguità e iniziare a prepararsi adesso. Serve un salto in avanti nella difesa e nella sicurezza. Serve una strategia molto più efficace per isolare e disinnescare le quinte colonne e i sabotatori interni dell’Europa, siano essi l’ungherese Viktor Orbán oggi o l’olandese Wilders domani. Serve che i governi dei principali Paesi smettano di sprecare energie per controllarsi a vicenda, per estrarre piccoli vantaggi gli uni dagli altri logorandosi su piccole regole interne, per minime ripicche e inutili rivalità. Il tempo di lavorare alle prossime svolte è ora. Domani potrebbe mancarci.

Fonte: Corriere