BOEZIO, Anicio Manlio Torquato Severino


 

 

di Augusto GUZZO , Giulio Bas – Enciclopedia Italiana (1930)

 

Nacque in Roma, forse nel 480 d. C. o poco più tardi. Apparteneva al ramo dei Boëthii della illustre famiglia degli Anicii. Morto suo padre, forse fu accolto in casa dall’amico Quinto Aurelio Simmaco e ivi educato. Più tardi sposò la figlia di Simmaco, Rusticiana. S’occupò presto di studî, tanto che nel 505 Cassiodoro poteva lodare i servigi da gran tempo resi da Boezio alla cultura romana con le sue traduzioni dal greco. Giovanissimo fu questore e patrizio. Nel 505 fu incaricato dal re Teodorico di trovare un buon citaredo per Clodoveo re dei Franchi, e di procurare un orologio ad acqua e a sole a Gundobaldo re dei Burgundî scegliendo le persone adatte a costruirlo.

Nel 510 B. fu eletto console; nel 522 furono elevati a questa dignità i suoi due figli ancora fanciulli: del quale onore egli ringraziò il re indirizzandogli un elogio in senato. Nel settembre dello stesso anno 522 divenne Magister officiorum. Nelle sue cariche egli poté più tardi vantarsi d’aver talora liberato da ingiusta oppressione individui e provincie. Tuttavia, nonostante tanto favore sovrano, egli era, come m0lti del suo grado, segretamente nemico del regime ostrogoto. Quando il referendario Cipriano accusò Albino d’intendersi con Bisanzio, B. lo difese, e a Verona, nel suo discorso dinnanzi a Teodorico, dichiarò che egli stesso e l’intero senato si sarebbero dovuti accusare, se s’incolpava Albino. Così fu egli stesso incolpato d’aver lavorato per la libertas Romana; e fu poi accusato anche di sacrilegium. Rinchiuso, pare, nella torre del battistero di Pavia, compose in quella prigione il suo scritto più celebre, De consolatione philosophiae, uno dei libri più letti, più tradotti, più imitati, della letteratura d’ogni tempo. Fu, infine, senz’ essere ascoltato, condannato a morte e, secondo una tradizione, torturato e giustiziato (524 o 525) nell’ager Calventianus presso Milano, secondo un’altra decapitato nello stesso suo carcere.

Le numerosissime opere di Boezio furono la più ricca fonte a cui il Medioevo attinse le sue conoscenze in fatto di logica, di aritmetica, di geometria, di musica; anche i suoi trattati teologici furono tenuti in altissima considerazione. Il piano di B. sarebbe stato quello di rendere accessibili ai Latini tutto Aristotele e tutto Platone per via di traduzioni e di commenti, mostrando anche l’accordo dei due grandi filosofi nelle questioni fondamentali. Di un così ampio disegno solo una piccola parte fu compiuta. Valendosi della traduzione, fatta da Mario Vittorino, della Isagoge di Porfirio, B. la commentò una prima volta avanti l’anno 505; più tardi tradusse egli stesso la Isagoge, e la ricommentò più ampiamente, prima del 510. Dopo quest’introduzione generale a tutto l’Organo aristotelico, B. tradusse le Categorie di Aristotele e le commentò, nel 510. E già negli anni precedenti aveva tradotto il Περὶ ἑρμηνείας dedicandogli due commenti, il secondo dei quali, scritto per le persone già avanti negli studî, è giudicato il più importante fra gli scritti logici boeziani. Forse B. tradusse anche altre opere logiche d’Aristotele (specialmente i Topici e i Primi Analitici); ma non sono sue le traduzioni degli Analitici primi e secondi, dei Topici e degli Elenchi sofistici, che pur compariscono come boeziane nell’edizione di Basilea del 1546 e nella Patrologia Latina del Migne (vol. LXIV). È ormai dimostrato che queste versioni appartengono a Iacopo da Venezia, che le compì nel 1128, e che dagli editori di Boezio furono ripulite. Sono invece di B. l’Introductio ad categoricos syllogismos, e i trattati De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico, De divisione, De differentiis topicis, che sono la fonte a cui l’alto Medioevo, fino al sec. XII, attinse la conoscenza di quella seconda parte dell’Organo aristotelico che, quando fu conosciuta, fu salutata col nome di nova logica. Non è di B., ma di Vittorino, il trattato De definitione, che è incluso dal Migne (vol. cit.) fra le opere boeziane; e di Domenico Gundisalvi, o, latinamente, Gundissalino, del sec. XII, è il De unitate. Verso il 500 B. cominciò i suoi libri di teoria musicale e matematica: il De institutione musica (per cui v. sotto); il De institutione arithmetica, riduzione dell’Aritmetica di Nicomaco di Gerasa; e il De geometria, traduzione quasi letterale degli Elementi di Euclide. Questi testi, studiati da tutte le generazioni del Medioevo, trasmisero la scienza antica al mondo moderno. Gli scritti fin qui menzionati non contengono accenno alcuno al cristianesimo; e poco ha di cristiano il De consolatione philosophiae, che rivela un’ispirazione neoplatonica e, in parte, anche stoica, tutt’altro che contraria al cristianesimo, anzi conciliata con la fede cristiana e specie con S. Agostino, ma tuttavia non caratteristicamente cristiana (vedi Klingner, De Boethii Consolatione Philosophiae, in Philologische Untersuchungen, XXVII, Berlino 1921). Si poté perciò dubitare della fede cristiana di B., e quindi dell’autenticità degli Opuscula sacra attribuitigli dalla tradizione: De Sancta Trinitate; De persona et duabus naturis in Christo contra Eutychen et Nestorium; e dei due trattatelli, dedicati al diacono Giovanni, Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, e Quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint cum non sint substantialia bona, altrimenti detto Liber de hebdomadibus. Ma, a parte il trattato De fide catholica, dimostrato spurio, gli altri opuscoli teologici furono provati autentici dall’Usener e dal Krieg, restandone così dimostrata anche la fede cristiana di Boezio.

Boezio, autore tanto di scritti unicamente ispirati dalla filosofia greca, quanto di scritti schiettamente cristiani, ancor meglio poté compiere il suo storico ufficio di trasmettere l’antica cultura al Medioevo, risultando, come giustamente fu definito, l’ultimo dei Romani e il primo degli Scolastici. Il Medioevo, poi, apprezzò tanto i suoi scritti, da commentare con grande ardore così i trattati teologici, come il De consolatione. Questo fu commentato, oltreché da Scoto Eriugena, da Remigio di Auxerre, Guglielmo di Conches, Nicola Trivet, Pietro d’Ailly, Dionigi Cartusiano, e imitato nel sec. XII da Pietro di Compostella, nel sec. XIV da Giovanni di Tambach e da Matteo da Cracovia vescovo di Worms, e al principio del sec. XV da Giovanni Gersone. E fu inoltre tra i primissimi libri tradotti nei nuovi volgari: re Alfredo d’Inghilterra lo tradusse, nel sec. IX, in anglosassone; Notker di S. Gallo, alla fine del sec. X, in tedesco; Jean de Meung, alla fine del sec. XIII, in francese. In greco fu tradotto da Massimo Planude; ci fu persino una traduzione ebraica.

L’opera, per la sua forma mista di prose e di versi, è stata riaddotta al genere letterario della satura menippea; e, per il suo contenuto, ha chiaramente mostrato agli studiosi – oltre a influssi di Aristotele e di Posidonio, che già si credettero mediati dall’Hortensius di Cicerone – la sua ispirazione inizialmente neoplatonica, che tuttavia non dipende direttamente da Plotino in quanto la suprema entità è identificata col creatore del mondo e non v’è alcuna realtà ulteriore, che sovrasti alla sua razionalità e alla sua essenza. Per B. Dio è, platonicamente, il Bene: per bontà ha creato il mondo, con la bontà lo governa; ma è anche, aristotelicamente, il motore immobile d’ogni movimento. E insieme con queste concezioni di stampo platonico e aristotelico, appaiono nell’opera anche elementi di schietto carattere stoico: B. insiste molto sulla ferrea legge che regola l’universo, e sulla provvidenza che tutto guida. Quello che avviene, avviene sempre secondo i disegni di Dio, a fin di bene. Perciò l’uomo deve sperare in Dio, e rivolgersi a Lui. Del resto i beni che, perduti, ci rattristano non sono veri beni: cade quindi l’accusa che Dio li abbia ingiustamente ripartiti tra gli uomini. Questi pensieri, le cui derivazioni sono state largamente studiate (v. Greg. A. Müller, Die Trostschrift des Boethius: Beitrag zu einer literarhist. Quellenuntersuchung, Berlino 1912), sono esposti sotto il velo di un’allegoria di quelle che poi si diranno medievali. A B. compaiono dinnanzi le Muse, la Filosofia e la Fortuna: e la Filosofia ha sulla veste le due lettere Θ e Π perché comprende teoria e pratica.

Risulta dunque anche da questi brevi cenni il tratto più caratteristico della figura spirituale di B.: cristiano, egli costruisce la sua principale opera filosofica sulla base di un eclettismo, in cui si trovano utilizzate le più diverse correnti del pensiero antico, senza che v’interferisca quasi nessun elemento di pensiero cristiano anche là dove ciò sarebbe riuscito più naturale. Tale contrasto fra la sua convinzione religiosa e il contenuto ancora classico della sua cultura determina così nettamente la sua posizione di mediatore, per cui la tradizione del pensiero antico trapassa in quella del Medioevo cristiano occidentale. (Sull’anticipato medievalismo di B., e la sua influenza sulla formazione della mentalità medievale, v. Grabmann, Gesch. d. schol. Methode, I, Friburgo in B. 1909, p. 160 segg.). E anche l’importanza letteraria di B. è forse tanto maggiore quanto più la sua figura si leva, all’estremo confine del mondo antico, sui secoli del Medioevo. In un’età così povera di scrittori significativi, B., per la molteplicità dei servigi resi alla cultura, e più ancora per l’importanza che le sue opere assunsero nel millennio successivo, appartiene, come scrive il Manitius, ai più notevoli rappresentanti della letteratura universale. E il suo scrivere, che pure non soddisfa chi sia avvezzo alla latinità del periodo aureo e argenteo, dovette tuttavia sembrare ammirevole nei secoli medievali in cui la latinità era certamente assai più corrotta. Del resto, anche nel corso delle opere boeziane, è notevole il miglioramento stilistico.

Dottrine musicali di Boezio. – I cinque libri De musica di B. trasmisero al Medioevo le teorie dei pitagorici greci e, assieme agli scritti di Cassiodoro, furono le basi di tutti gli studî teorici, fino a quando, verso la fine del ‘400, Franchino Gaffurio incominciò a ricorrere direttamente ai testi greci stessi. Nell’esporre il modo d’ottenere i varî suoni dividendo il monocordo, B. adoperò lettere dall’A alla P cominciando dalla nota la grave; ciò, secondo il Riemann, nel senso stesso dei matematici, che si servono di lettere per indicare punti, linee, angoli. Comunque sia, i teorici posteriori considerarono quelle lettere come segni corrispondenti stabilmente alle note che indicavano, e ne risultò la “notazione boeziana”, di cui si fece uso nel Medioevo, specialmente (data l’estensione) nelle musiche per voci d’uomo (cfr. J. Wolf, Handbuch der Notations-kunde; id., Die Tonschriften).

Ediz.: Le opere di Boezio furono stampate a Venezia nel 1492 e nel 1499, a Basilea nel 1546 e nel 1570, e nei volumi LXIII-LXIV della Patrologia Latina del Migne, a Parigi nel 1847. Edizione critica dei commenti all’Isagoge: Anicii Manlii Severinii Boëthii in Isagogen Porphyrii commenta. Copiis a G. Schepss comparatis suisque usus rec. S. Brandt, Vienna 1906, in Corpus Scriptorum Eccles. Lat., XLVIII. I commenti al De interpretatione furono pubblicati da C. Meiser, A.M. S. Boëtii Commentarii in librum Aristotelis Περὶ ἑρμηνείας, voll. 2, Lipsia 1877-1880. I libri matematici furono editi da G. Friedlein, A. M. S. Boëtii De institutione arithmetica libri duo, De institutione musica libri quinque. Accedit Geometria quae fertur Boêtii, Lipsia 1867. I De consolatione philosophiae libri V, pubblicati per la prima volta a Norimberga nel 1473 e poi quarantatré volte solo nel corso del sec. XV, sono stati editi, con le Opera theologica, da R. Peiper nel 1871 a Lipsia. In italiano, dopo la traduzione cinquecentesca di Benedetto Varchi (Firenze 1589, in-24°), e quella secentesca del gesuita Tomaso Tamburino (Palermo 1657), c’è la traduzione, preceduta da uno studio storico-filosofico, di Teresa Venuti De Dominicis (voll. 2, Grottaferrata 1911-12).

Bibl.: Oltre gli studî già citati nel testo, vedi la bibliografia elencata in F. Ueberweg, Grundriss d. Geschichte d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 199-200 dell’Appendice; id., II, 11ª ed., Berlino 1928, pp. 669-670.